venerdì 15 giugno 2012

Il sufismo è il miglioramento di se stessi



Giungiamo ora a quella che è una delle accuse più comuni rivolte al sufismo: l’uso che fanno i sufi di una fraseologia simbolica ed oscura, l’uso di un linguaggio ermetico, del genere di quelli che certe moderne società segrete usano... a volte per nascondere il vuoto o la nullità dei loro concetti.

I sufi infatti manipolano a loro grado il linguaggio, le comunicazioni, il materiale didattico. Ciò ha molta importanza, ed è dovuto a più di un fattore.

Shams adDîn Muhammad alLâhijî († 1506), fondatore dell’Ordine Lahjâniy/ya, disse: «Noi non viviamo a Est o a Ovest; non studiamo a Nord o insegnamo a Sud. Non siamo così limitati, tuttavia possiamo talvolta essere costretti a parlare entro questi limiti». I sufi considerano che il linguaggio è una limitazione, ma una limitazione necessaria; ed essa è “limitata” in rapporto ai limiti di chi ascolta.

Con questa sua riflessione Jalal adDîn Rûmî (1207 - 1273) indicò verità ben più profonde di quanto non lasci intendere a prima vista: «Le parole in se stesse non sono importanti. Eppure se trattate bene un visitatore e lo gratificate con parole amabili, eccolo felice; ed un altro che riceverete con parole ingiuriose ne rimarrà ferito. Qualche parola può significare realmente felicità o tristezza? Sono solo fattori secondari, non effettività reali. Colpiscono solo i deboli».

Vediamo così che già nel XIII secolo i sufi parlavano dell’efficacia psicologica del linguaggio. E infatti il valore delle parole – l’abbiamo visto con la novelletta dei quadrupedi – è tale che una larga branchia della psicoanalisi si è volta in Germania allo studio diretto della semantica e indaga “l’apprendimento errato dei significati verbali” come “frattura esistenziale tra il conoscimento del significato esatto e quello sbagliato”.

Rûmî in altro luogo dimostra che l’umanità usualmente non è in grado di intendere il giusto significato delle “cose comunicate” (che non si limitano alle sole parole) perché non compenetra il significato finale: «Due mendicanti giunsero a una porta. Ad uno venne dato un grosso pane, e quegli se ne andò soddisfatto. L’altro venne fatto attendere non poco; e se ne dispiaceva, non sapendo che – essendo preferito al primo – stavano aspettando che il nuovo pane finisse di cuocere, per dargliene uno fresco anziché uno raffermo».

Sul tema del significato finale vi è poi nel Corano la vicenda dell’angelo del Signore e di Mosè che lo riconobbe (XVIII 65-82); per cui il musulmano è già edotto sul significato di “non giudicate dalle apparenze, né le azioni che siano tolte dal loro contesto generale”, e dovrebbe collocare ogni azione nel suo contesto, o attendere il compimento dell’azione, o aspettare che ne nasca la dimostrazione del suo scopo finale. Tanto più una persona si avvia verso la Realizzazione del Sé, tanto più capisce il significato di questo “astenersi dal giudicare ciò che è parziale”; ma tutti gli altri emettono spesso giudizi aprioristici e quasi sempre a sproposito.

Per il sufi si rende così necessario anzitutto decodificare l’usuale simbologia dei vocaboli, per fare acquisir loro una serie di significati superiori, in mancanza di vocaboli nuovi. Il conio continuo di termini nuovi può condurre alla confusione, però i significati usuali sono troppo limitati.

Anche il materiale disponibile nella vasta letteratura sufica va opportunamente selezionato e vagliato dal maestro. «Quest’uso del materiale – scrive il contemporaneo Idris ibn Ashraf – differenzia nettamente l’ideologia sufica dalle altre. Questo atteggiamento ha permesso al vero sufismo di non cristallizzarsi in gerarchie dogmatiche e nel tradizionalismo. Nei gruppi di origine sufica in cui invece questa fossilizzazione è avvenuta, il loro mero fissarsi sulla ripetizione pura del materiale di repertorio costituisce per l’aspirante avveduto l’avvertimento che tale organizzazione “si è inserita nel mondo” […] Anche dando informazioni obiettive sul sufismo si può recar danno a chi domanda, nel caso in cui la sua possibilità di comprensione sia difettosa o erroneamente addestrata. Ad esempio: vi pongono la domanda e voi rispondete: “Il sufismo è il miglioramento di se stessi”. Ma che intendono gli altri per miglioramento e per se stessi? Vi sarà chi interpreta secondo il proprio desiderio di cambiare sul piano materiale la posizione sociale. Se dite: “Il sufismo è ricchezza inesprimibile”, gli avidi vi vedranno un tesoro da carpire e gli ignoranti il conseguimento di un potere segreto. Non lasciatevi indurre nell’errore di disporre la risposta in forma religiosa o filosofica, poiché il religioso o il filosofo potranno commettere lo stesso sbaglio di avidità, interpretando secondo il proprio concetto quel che viene detto».

D’altronde è pressoché inutile cercare il sufismo nei libri dei sufi, se non si sa che cosa cercare e che cosa scartare. Nei libri le verità esoteriche non sono descritte, e se a volte lo sono, lo sono in modo celato. Si assiste anzi al fatto, apparentemente bizzarro, che le raccolte di aneddoti mistici relativi a maestri sufi (ad esempio quelle di Farîd adDîn al ’attâr, di Ghazâlî, di Muhammad ibn Monawwar) non vengono lette dagli Ordini, bensì solo dal popolo. In esse troviamo azioni di sufi, ma non una tecnica per diventare sufi, né una spiegazione del sufismo. O là dove se ne parla, son frammenti, lampi, e anche poco chiari.

Ad una prima analisi possiamo dire allora che il sufismo è una risposta valida per colui che – insoddisfatto della propria vita e del proprio stato, sia in pensieri che azioni – avverte la necessità di un cambiamento, di un miglioramento, d’un mutamento anche totale di questo suo permanere nel chiuso della insoddisfazione. Per chi avverte l’urgenza di conoscere la Verità, anziché ciò che gli viene imposto per un fine (palese o segreto) di indottrinamento formale; chi avverte l’ansia di una pace universale in nome solo della propria intima libertà naturale; e tuttavia capisce che gli strumenti da lui usati o studiati non sono in grado di giungervi. Per chi infine non ama i falsi sorrisi, le convenzioni opportunistiche, i preconcetti limitativi, i tornaconti, le invidie, le calunnie, il malanimo, le inimicizie, le invidie.

Ma chi avverte di là dalle limitazioni della forma, dei nomi, delle tradizioni e dei preconcetti l’unione universale dell’Essere, chi intende il “qui e ora” come solo momento terreno, ma momento terreno eguale all’infinito, all’eterno; e avverte tutte le sostanze come distinzione momentanea di una sola energia, superando i termini usuali di Dio per una illuminazione del Sé che chiarifichi l’essere delle cose, questi è già sulla Via.

Quale è questa Via? Mi pare che vi siano due distinzioni essenziali anche nell’azione sufica: l’operare del sufi su di sé per sé, e ciò che l’opera dei sufi ingenera nell’ambiente in cui essi vivono. Anche nell’insegnamento stesso vi è una realtà esoterica ed una essoterica, una azione interna ed una esterna, una verità per la folla e la Verità. Del pari nella semantica ogni vocabolo viene suddiviso nel suo significato e nel suo significante, il primo essendo l’opinione generalizzata e il secondo l’opinione individuale. Il sufi penetra di là dai significati e dalle significanze, di modo che, superate le apparenze, giunge al Vero.


– da “Il sufismo vertice della piramide esoterica”
di Gabriele Mandel



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