sabato 27 marzo 2010

A quattro dita da terra


Una volta uno studente zen citò al proprio maestro questa antica poesia buddhista: 'Le voci dei torrenti provengono da un'unica grande lingua. I leoni delle colline sono il puro corpo del Buddha'. "Non è così?", chiese lo studente. "Sì", rispose il maestro, "ma è davvero un peccato metterla in questi termini". Sarebbe stato molto meglio se tale occasione fosse stata celebrata col più totale silenzio. Se dovessi rivolgervi la parola nello stile dei vecchi maestri zen, dovrei dare una botta sul microfono e andarmene. Penso però che siccome tutti voi avete contribuito al mantenimento del Mountain Zen Center nella speranza di imparare qualcosa, io devo dirvi qualche parola, sebbene debba avvertirvi che spiegandovi queste cose vi espongo al rischio di una solenne presa in giro. Ora, se io vi permettessi di lasciare questa sala stasera con l'idea di aver capito qualcosa dello zen, avreste mancato completamente il bersaglio. Lo zen è uno stile di vita, una condizione dell'essere, che non è possibile ridurre a nessuna forma concettuale.

Qualsiasi concetto, idea o parola io volessi trasmettervi stasera non potrebbe avere altro obiettivo che dimostrare la limitatezza delle parole e del pensiero. Dovendo improvvisare qualcosa sullo zen, e voglio proprio provare a farlo a guisa d'introduzione, è importante che io metta l'accento sul fatto che lo zen, nella sua essenza, non è una dottrina. Non c'è proprio nulla in cui ci venga chiesto di credere, e non si tratta di una filosofia, almeno secondo l'accezione più comune del termine. Non è quindi un sistema di idee, una rete intellettuale attraverso la quale si prova a catturare il pesce della realtà. Anzi, il pesce della realtà assomiglia più che altro all'acqua: scivola sempre tra le maglie della rete, e come l'acqua, quando lo si incontra non c'è nessun appiglio per afferrarlo. Naturalmente l'universo intero è come l'acqua: è fluido, è fugace, è mutevole. Un uomo gettato in mare che non conosce altro che la vita sulla terraferma, che non ha alcuna dimestichezza con l'idea di nuotare, prova a tenersi sopra l'acqua. Cerca di aggrapparsi all'acqua, e il risultato è che annega. Mi riferisco in particolare alle acque della confusione filosofica moderna, nella quale dio è morto, ogni affermazione metafisica è priva di senso, e non c'è nulla a cui aggrapparci semplicemente perché stiamo crollando. In tali circostanze l'unico modo per sopravvivere è imparare a nuotare: ci si rilassa, si lascia la presa e ci si abbandona all'acqua. Bisogna sapere respirare nel modo corretto, ma una volta capito che l'acqua ci sostiene, in un certo senso diventiamo davvero l'acqua.

Se si dovesse provare (ripeto, in modo fuorviante) a illustrare lo zen con una qualche forma concettuale, si potrebbe ridurlo a queste poche parole: il nostro universo è pregno di una grande energia e non sappiamo come chiamarla. Gli uomini hanno escogitato diversi nomi - Dio, Brahman e Tao, tanto per fare qualche esempio - ma in occidente il termine Dio ha talmente tante associazioni ridicole che la maggior parte della gente non ne può più. Quando qualcuno dice Dio padre onnipotente la maggior parte degli ascoltatori si sente in imbarazzo e quindi è necessario trovare nuove parole. Ci piacciono quegli strani nomi che vengono dall'Estremo Oriente, come Tao, Brahman o Tathata, perché non hanno le stesse associazioni che ci riportano alla più sdolcinata santimonia, o agli strani significati che appartengono al passato. In realtà, alcune delle parole usate dai buddhisti per indicare l'energia fondamentale del mondo non hanno alcun senso. La parola tathata, che è il termine sanscrito per 'talità', 'quiddità' o 'vastità', in realtà significa qualcosa del tipo: 'da-da-da', sulla base della parola tat, che in sanscrito vuol dire 'quello'. Sempre in sanscrito, l'esistenza viene descritta come 'tat tvam asi', 'quello voi siete', ovvero, in un linguaggio corrente, 'tu sei quello'. Però da-da-da è il primo suono che viene emesso dal neonato, allorché si guarda intorno e dice proprio: "Da-da-da-da-da", ovvero "Quello, quello, quello, quello, quello!". I padri se ne compiacciono, pensando che il piccolo con quel 'da-da' voglia dire 'daddy', invece, secondo la filosofia buddhista, tutto l'universo è da-da-da, vale a dire diecimila funzioni, diecimila cose, ovvero una talità, nella quale ci ritroviamo tutti.

La talità muta a seconda delle circostanze, come ogni altra cosa, perché questo nostro mondo è un sistema che funziona a intermittenza. I cinesi lo chiamano yin e yang, qualcosa basato sull'adesso ti vedo, adesso non ti vedo, ci sei, non ci sei. La natura stessa dell'energia è simile all'onda, e sappiamo bene che le onde hanno una cresta e un ventre. Tuttavia, qualcosa, perché non c'è niente da cercare. La domanda a questo punto è: "Sto ancora cercando? Ho capito?".

Tale conoscenza non è un genere di sapere che può essere posseduto, né qualcosa che si è imparato a scuola, o che può essere attestato da un diploma. Si tratta di un genere di conoscenza nel quale non c'è nulla da ricordare né nulla da ridurre in formule. È qualcosa che conosciamo meglio quando affermiamo di non conoscerlo affatto, perché vuol dire che non lo stiamo afferrando, non stiamo cercando di tenerlo ben stretto come se si trattasse di un concetto. Non è assolutamente necessario farlo, e se dovessimo provarci, sarebbe come provare a 'mettere le gambe a un serpente' o 'far crescere la barba a un eunuco', tanto per usare qualche esempio zen, o, come diremmo noi, 'raddrizzare le zampe ai cani'. Sembra piuttosto facile, non vi pare? Vorrebbe forse dire che tutto ciò che dobbiamo fare è rilassarci? Che non c'è più bisogno di andare in giro in cerca di qualcosa, che possiamo abbandonare la religione, la meditazione, questo e quello e quell'altro ancora, e tirare avanti vivendo come più ci piace? Ecco come un padre risponde al figlio che continua a chiedere: "Perché, perché, perché?". "Perché dio ha fatto l'universo?". "Chi ha creato dio?". "Perché gli alberi sono verdi?". Alla fine quel padre esclama: "Oh piantala, e mangia la tua merenda". Ma non è così semplice. Tutta questa gente che cerca di realizzare lo zen per mezzo del non fare nulla in quella direzione, sta ancora cercando disperatamente di trovarlo ed è sulla strada sbagliata. C'è un'altra poesia che dice: "Non puoi ottenerlo pensando, non puoi afferrarlo non pensando"; in altre parole: "Non si può afferrare il significato dello zen cercando di fare qualche passo in quella direzione, ma allo stesso modo è impossibile penetrarne il significato evitando di muoversi in quella stessa direzione". Si tratta di due diversi tentativi di allontanarci da dove siamo, qui e ora, per dirigerci altrove. Il fatto è che possiamo giungere a una comprensione di ciò che chiamo 'talità' solo cercando di essere completamente qui, e per essere completamente qui non è necessario alcun espediente, né espedienti attivi né espedienti passivi, perché in entrambi i casi staremmo cercando di allontanarci dal momento presente.

È difficile comprendere un linguaggio come questo, e tuttavia per arrivare a capire di cosa si tratti c'è solo un prerequisito assolutamente necessario: smettere di pensare. Ora, in ciò che dico non c'è la minima intenzione di anti-intellettualità, perché io penso molto, parlo molto, scrivo molti libri e sono una specie di stupido erudito. In ogni caso sapete bene che se passiamo tutto il tempo a parlare, non ci sarà possibile ascoltare nulla di quanto gli altri vogliono dirci, e quindi tutto ciò di cui potremo disquisire sarà il nostro soliloquio. Lo stesso vale per le persone che pensano di continuo. Uso il verbo 'pensare' per indicare il parlare tra sé e sé, una conversazione interiore, il costante chiacchiericcio di simboli, immagini, discorsi e parole all'interno del nostro cranio. Ora, se lo facciamo di continuo, scopriremo che non abbiamo null'altro a cui pensare oltre al pensiero stesso, e se da un lato è necessario smettere di parlare per poter ascoltare ciò che gli altri hanno da dire, dall'altro è necessario smettere di pensare per scoprire cos'è la vita. Nel momento in cui smettiamo di pensare, entriamo immediatamente in contatto con quello che Alfred Korzybski ha così splendidamente definito 'il mondo inesprimibile', ovvero il mondo non-verbale. Qualcuno lo chiamerebbe 'mondo fisico', ma tali termini, 'fisico', 'non-verbale' e 'materiale' sono tutte forme concettuali, mentre non si tratta affatto di un concetto. Non è neppure un rumore, è semplicemente 'quello'. Se ci apriamo a quel mondo scopriamo tutt'a un tratto che tutte le cosiddette differenze tra noi stessi e gli altri, tra la vita e la morte, il piacere e il dolore, sono puramente concettuali e non hanno esistenza. Nel mondo che è semplicemente 'quello' non esistono affatto. In altri termini, se vi colpisco con sufficiente forza, 'Ahi', non sentite dolore. Se siete nella condizione denominata 'non pensiero', c'è una determinata esperienza, ma non la chiamate 'dolore'. Quando eravamo piccoli, e gli altri bambini ci picchiavano, scoppiavamo a piangere e loro ci dicevano: "Non piangere", perché volevano farci male ma nello stesso tempo non volevano farci piangere. Ecco perché nello zen c'è la pratica detta zazen, ovvero la meditazione seduta zen. Nel buddhismo si parla delle quattro nobili posture dell'uomo: camminare, stare eretti, sedere e coricarsi; connesse a queste, oltre allo zazen, ci sono altri tre generi di zen: il modo zen di stare eretti, di camminare e di coricarsi. Viene detto: "Quando siedi, siedi; quando cammini, cammina; ma qualsiasi cosa tu faccia non esitare". Naturalmente, potete anche esitare ma occorre farlo bene.

Quando al vecchio maestro Hyakujo venne chiesto in che cosa consistesse lo zen, questi rispose: "Quando ho fame, mangio. Quando ho sonno, dormo". Il postulante controbatte: "Beh, ma non è ciò che fanno tutti? Non sei proprio come gli esseri ordinari". "Oh no", rispose il maestro, "gli esseri ordinari non fanno nulla del genere. Quando hanno fame non si accontentano di mangiare, ma pensano a ogni genere di cose. Quando sono stanchi non si accontentano di dormire, ma passano da un sogno all'altro". So che non piacerà ai seguaci di Jung, ma arriva un momento in cui si smette semplicemente di sognare e non ci sono più sogni, di conseguenza si dorme come un sasso. È proprio per questo che lo zazen, ovvero il 'sedere zen', è una cosa ottima per il mondo occidentale. Abbiamo corso più del necessario. Non c'è problema, perché siamo stati attivi, e col nostro agire abbiamo ottenuto un sacco di cose positive. Tuttavia, ecco cosa ci ha suggerito Aristotele molto tempo fa, uno dei suoi migliori suggerimenti: "Lo scopo dell'azione è la contemplazione". In altri termini, a che fine essere sempre, continuamente, terribilmente occupati? Quando la gente è indaffarata, pensa che arriverà da qualche parte, che riuscirà a raggiungere la meta prefissata e a ottenere qualcosa. C'è davvero un valido motivo per agire se sappiamo che non stiamo andando da nessuna parte, e se sappiamo agire nello stesso modo in cui danziamo, cantiamo o suoniamo, allora davvero non stiamo andando in nessuna direzione. Stiamo semplicemente compiendo l'azione pura. Se d'altra parte vogliamo agire con l'idea che in seguito a tale azione arriveremo in qualche posto, in cui tutto sarà perfetto, ecco che siamo ricaduti nella ruota della gabbia dello scoiattolo: condannati senza speranza a ciò che nel buddhismo prende il nome di samsara, la ruota, o rincorsa, della nascita e della morte. È questa la conseguenza del pensare di arrivare da qualche parte. Ci siamo già, e solo una persona che ha scoperto di esserci già è davvero in grado di agire. Una persona del genere non agisce in modo convulso con l'idea di arrivare da qualche parte. Può arrivarci con la meditazione camminata, e cioè con un camminare che non è motivato dall'incontenibile fretta di raggiungere la propria destinazione, ma perché camminare è in sé stupendo e camminare è in sé meditazione. Osservare i monaci zen è uno spettacolo molto affascinante, perché hanno un modo di camminare che non ha pari in tutto il Giappone. La maggior parte della gente se ne va in giro strascicando i piedi; se invece è vestita all'occidentale sfreccia via come facciamo noi. I monaci zen hanno nel loro camminare un dondolio caratteristico: si ha quasi l'impressione che camminino come i gatti. C'è un qualcosa nel loro stile che indica la mancanza di esitazioni: vanno per la loro strada normalmente, ma il loro camminare è un camminare e basta. Non si può agire creativamente se non sulla base della più assoluta calma, con la mente capace di tanto in tanto di smettere di pensare.

A prima vista la pratica seduta può sembrare molto difficile, perché se ci si siede nel modo buddhista, le gambe iniziano a far male. Inoltre molti occidentali ben presto si innervosiscono, perché trovano noioso stare seduti a lungo. La ragione per cui lo trovano noioso è che stanno ancora pensando; se non pensassero non potrebbero rendersi conto del passare del tempo. Invece il mondo osservato senza il rumore di fondo del chiacchiericcio mentale diventa interessantissimo, anziché noioso. Le visioni, i suoni e gli odori più comuni, così come il succedersi delle ombre sulla porta di fronte a noi, tutte queste cose esistono senza essere nominate, senza che si dica: "Ecco un'ombra, quello è rosso, quello è marrone, quello è il piede di qualcuno". Se riusciamo finalmente a smettere di nominare le cose, cominciamo a vederle. Quando una persona dice: "Vedo una foglia", immediatamente si pensa a una cosa di forma appuntita con una sagoma dai bordi scuri e l'interno verde pallido. Non c'è nessuna foglia che sia fatta davvero così. No, le foglie non sono verdi. Ecco perché Lao-tzu disse: "I cinque colori accecano l'occhio dell'uomo. Le cinque note assordano l'orecchio dell'uomo".

Se possiamo vedere solo cinque colori, siamo ciechi; se nella musica possiamo sentire solo cinque note, siamo sordi. Se riduciamo ogni suono a una delle cinque note, e ogni colore a uno dei cinque colori, siamo sordi e ciechi. Il mondo dei colori è senza limiti, così come lo è il mondo dei suoni. Solo smettendo di classificare le percezioni del mondo dei colori e dei suoni possiamo veramente iniziare a vedere e ascoltare. È la disciplina, se posso permettermi l'audacia di usare tale termine, dello zazen (o meditazione) che produce la straordinaria capacità dei praticanti zen di sviluppare grandi arti come il giardinaggio, la cerimonia del tè, la calligrafia e i grandiosi dipinti della dinastia Song e della tradizione giapponese sumi. I maestri zen ritrovano la magia nelle cose più semplici della vita quotidiana, in particolar modo nella cerimonia del tè, o chanoyu, che in giapponese vuoi dire 'acqua calda per il tè'. Per citare le parole del poeta Ho Koji: "Poteri meravigliosi e attività sovrannaturali: attingere l'acqua, portare la legna".

Sapete che talvolta, ripetendola all'infinito, si può rendere una parola priva di senso? Prendete per esempio la parola 'sì'. Sì. Sì. Sì. Sì. Sì. Sì. Sì. Sì. Sì. Diventa ridicola. Ecco perché nell'addestramento zen si usa la parola mu, che vuol dire 'no'. Se ripetiamo questa parola per molto tempo, finché cessa di avere significato, diventa magica, e quello è il suono. Il modo più semplice per smettere di pensare è innanzitutto pensare a qualcosa che non abbia significato. Ora, naturalmente, parlandovi di mu, oppure del 'sì', del contare il respiro oppure dell'ascoltare un suono privo di significato, quello che voglio è farvi smettere di pensare per lasciarvi affascinare dal suono. In seguito, approfondendosi la vostra concentrazione, giungerete a un punto nel quale il suono scompare e sarete completamente aperti. A quel punto ci sarà una specie di preliminare del cosiddetto satori, e penserete: "Accidenti, eccolo!". Sarete così felici che vi metterete a passeggiare per aria. Quando chiesero a Daisetsu Suzuki a cosa assomigliasse il satori, rispose: "Beh, è come ogni altra esperienza quotidiana, solo che si sta a quattro dita da terra". C'è un altro detto secondo il quale lo studente che ha raggiunto il satori precipita all'inferno dritto come una freccia. Se si ha un'esperienza spirituale, sia attraverso lo zazen sia per mezzo di qualsiasi altra cosa che porti comunque a tale esperienza e si prova ad afferrarla, dicendo: "Ecco, ci sono arrivato...", in un lampo la si perde, vola via, perché nell'istante in cui si prova ad agguantare una cosa vivente, questa scivola via, come l'acqua tra le dita. Più stringiamo il pugno, più ci sfugge tra le dita; non c'è niente da afferrare perché non c'è bisogno di afferrare nulla: l'abbiamo sempre avuto sin dall'inizio.

Naturalmente è possibile ottenere tale esperienza con diversi metodi di meditazione. Il problema sono quelle persone che una volta conclusa l'esperienza se ne vantano. Dicono: "L'ho visto". Le persone che studiano lo zen e si vantano con gli amici della lunghezza delle loro sedute e del dolore alle gambe, ripetendo com'è stata dura, sono altrettanto intollerabili. La disciplina dello zen non è intesa come qualcosa di volutamente duro, e non viene mantenuta con spirito masochista e con l'ottica puritana che la sofferenza è qualcosa di positivo. Quando andavo a scuola, in Inghilterra, la premessa educativa fondamentale era che la sofferenza formasse il carattere. Di conseguenza tutti gli studenti più anziani erano liberi di malmenare i più giovani, con la coscienza perfettamente a posto, perché dopotutto gli stavano facendo un favore. Era considerata una cosa utile perché in tal modo i giovani potevano rafforzare il loro carattere. Per colpa di un tale atteggiamento la parola 'disciplina' ha iniziato ad assumere una pessima fama, e l'ha conservata per lungo tempo. Nei confronti della disciplina zen, invece, dobbiamo mantenere un atteggiamento completamente nuovo, perché senza la sua quiete e la sua funzione pacificante la vita diventerebbe caotica. Quando alla fine giungiamo a lasciar andare tutto, dobbiamo stare maledettamente attenti a non scioglierci e divenire completamente liquidi, perché non c'è più nulla a cui afferrarci. Quando capita di chiedere alla gente di sdraiarsi a terra e rilassarsi, si scopre che la maggior parte è piena di tensioni, perché non crede davvero che il pavimento la sosterrà, e quindi continua a fare uno sforzo per tenersi su. Molti sono in ansia e hanno paura che se non si tengono su, per quanto ci sia sempre il suolo a sostenerli, improvvisamente si trasformeranno in una pozzanghera e goccioleranno via in tutte le direzioni. D'altro canto ci sono persone che, non appena gli viene chiesto di rilassarsi, si afflosciano come uno straccio. Ora, l'organismo umano è una complessa combinazione di parti dure e molli, di carne e ossa. Nello zen c'è un aspetto che non ha niente a che vedere né col fare né col non-fare, e che tuttavia riguarda il semplice fatto che noi siamo quello e non dobbiamo cercarlo: questa è la carne dello zen. C'è poi l'aspetto nel quale possiamo tornare al mondo con un atteggiamento di non-ricerca, sapendo che siamo quello e tuttavia evitando di crollare: qui ci vogliono le ossa dello zen. Farsi le ossa dello zen è una delle cose più difficili.

Una certa generazione di cui noi tutti siamo a conoscenza si fece una certa idea dello zen e cominciò uno stile di pittura e di scultura, nonché di vita, in cui tutto era permesso. Credo che ormai siamo guariti da quella fase. I nostri pittori stanno cominciando a tornare all'idea di bellezza, allo splendore della chiarezza espressiva e dei colori vividi. E non c'è stato nulla di simile sin dalle vetrate di Chartres. È un buon segno, ma richiede la presenza di un senso di libertà nella nostra vita quotidiana. Non sto parlando della semplice libertà politica. Mi riferisco alla libertà che è provocata dal sapere che si è quello, per sempre, senza limiti, e sarà così bello quando arriverà la morte, perché ci sarà un cambiamento, ma quello tornerà in qualche altra forma. Se abbiamo capito tutto ciò, se abbiamo penetrato la natura del miraggio universale, a quel punto dobbiamo stare attenti, perché possiamo avere in noi dei semi di ostilità, semi di orgoglio, semi che ci spingono a voler umiliare gli altri, o a voler semplicemente sfidare le normali regole della vita. Ecco perché nei monasteri zen ai novizi vengono assegnati i compiti più leggeri, e più anziani si è, più sono impegnativi i propri doveri. Per esempio, spesso la pulizia della toilette tocca al roshi. Vediamo in ciò una splendida concezione estetica, molto raffinata, perché proprio il rispetto continuo di tale ordine evita che tutta l'energia contenuta nel sistema ci dia alla testa. La comprensione dello zen, la comprensione del risveglio, ovvero la comprensione dell'esperienza mistica è una delle cose più pericolose al mondo, e per la persona che non può contenerla, equivale a far passare una corrente di un milione di volt in un rasoio elettrico. Si esce fuori di testa e fuori si rimane.

Chi esce in questo modo viene definito pratieka-buddha: uno che penetra nel mondo trascendente e non torna più indietro. Dal punto di vista del buddhismo ha commesso un errore, perché nel buddhismo non c'è differenza fondamentale tra il mondo trascendente e il mondo di tutti i giorni. Il Bodhisattva non raggiunge il nirvana e vi resta poi perpetuamente; torna indietro e vive una normale vita quotidiana, per aiutare gli altri esseri a comprendere anche loro. Non che torni indietro perché ha preso una sorta di solenne impegno ad aiutare l'umanità, o per una qualsiasi altra pia inclinazione. Torna perché ha visto che i due mondi sono identici, e vede tutti gli altri esseri come Buddha. Per usare una frase di G. K. Chesterton: "Ora per strada qualsiasi cenno umano sembra una gran cosa, una ben strana democrazia, un milione di maschere di dio". È fantastico osservare la gente e scoprire che in realtà, nel loro intimo, sono illuminati e sono quello, sono i volti del divino. Ci guardano e dicono: "Oh no, ma io non sono divino, sono un semplice e ordinario me stesso". Noi torniamo a osservarli in quel modo curioso e scopriamo la natura Buddha, che ci viene incontro dal loro sguardo mentre dicono che non lo è, e lo dicono con assoluta sincerità. Ecco perché quando ci troviamo a faccia a faccia con un grande guru, con un maestro zen, questi ci osserva con quel suo strano sguardo. Gli diciamo: "Maestro, ho un problema. Sono veramente confuso e non capisco". Lui ci scruta ancora in quel modo particolare, finché pensiamo: "Povero me! Sta leggendo i miei pensieri più nascosti. Sta guardando tutte le mie negatività, la mia codardia, tutti i miei difetti". Niente di tutto ciò. Non è nemmeno interessato a quelle cose. Volendo usare una terminologia induista, sta osservando lo Shiva in noi e gli sta dicendo: "Mio dio, Shiva, perché non vieni fuori?".

Il Bodhisattva, al contrario del pratieka-buddha, non si rifugia in un'estasi permanente, non entra in una specie di samadhi catatonico. Non che io voglia criticare tali condizioni: ci sono persone che possono farlo perché è la loro vocazione, la loro specialità. Proprio come una cosa lunga è il corpo lungo del Buddha e una cosa breve è il corpo breve del Buddha, se giungiamo davvero a comprendere lo zen, ci rendiamo conto che l'idea buddhista di illuminazione non è inclusa nella nozione di trascendente. Né d'altra parte è inclusa nella nozione di ordinario, o in termini quali finito e infinito, eterno o temporale: sono tutti concetti.

Non sto parlando di regolare la normale vita quotidiana secondo una prospettiva metodica e ragionevole; non vi sto dicendo: "Se foste delle brave persone, ecco come dovreste comportarvi". Per amor di dio, non cercate di essere 'brave persone'. Ma se non possedete quella struttura fondamentale basata su un certo tipo di ordine e di disciplina, allora la forza della liberazione fa esplodere il mondo: e una corrente troppo forte, che un semplice cavo elettrico non può reggere.

Quindi diventa terribilmente importante andare oltre la prospettiva dell'estasi. Sì, l'estasi è carne soffice e amabile, da abbracciare e baciare, e in ciò non c'è niente di male. Tuttavia, oltre l'estasi ci sono le ossa, ciò che chiamiamo la dura realtà dei fatti, ciò che ci accade nella vita quotidiana. Non dovremmo dimenticarci di citare i fatti più piacevoli, e ce ne sono molti. Ma la realtà nuda e cruda, il mondo percepito nella condizione ordinaria, quotidiana, della nostra coscienza non è differente dal mondo dell'estasi suprema. Supponiamo che, come spesso accade, la nostra concezione dell'estasi sia riferita all'interiorità, al percepire una luce. C'è una poesia zen che dice: "L'improvviso scoppio del tuono, le porte della mente che cedono e si spalancano, e là siede un vecchio ordinario". C'è quest'improvvisa visione, il satori, le porte della mente si aprono ed ecco che nel mezzo della scena c'è un vecchio, una persona ordinaria. Il nostro piccolo sé. Lampi, una cascata di scintille. Nel tempo di un batter di ciglia non siamo stati in grado di vedere. Perché? Perché la luce è qui; la luce... Ogni mistico del mondo ha visto la luce, quella brillante energia fiammeggiante che è rinchiusa in ogni cosa, più brillante di migliaia di soli. Ora provate: immaginate di percepirla, proprio come potreste vedere l'aura intorno ai Buddha, proprio come se si trattasse della visione beatifica di Dante alla fine del suo viaggio nel paradiso. Vivida, davvero vivida, una luce così brillante che è come la chiara luce del vuoto nel Libro dei Morti tibetano; qualcosa di così brillante da superare persino la luce stessa. La vedete ritirarsi, e ai margini c'è come una grande stella, che diventa un bordo di colore rosso, e poi arancione, giallo, verde, blu, indaco e viola; vedete apparire quel grande mandala, come un grande sole. Oltre il viola c'è il nero, un nero che ricorda l'ossidiana, non una tinta opaca, ma quasi trasparente, come lacca. Ancora, dal nero scaturisce il suono, proprio come dallo yin viene lo yang. Assieme alla luce bianca c'è un suono così formidabile che non riuscite a sentirlo, così perforante da far saltare le orecchie. Quindi, insieme ai colori il suono discende la scala degli intervalli armonici, sempre più giù sino a raggiungere un profondo rimbombo, talmente vibrante da diventare qualcosa di solido, e si comincia a percepirne l'analoga gamma strutturale. Ora, per tutto questo tempo avete continuato a osservare una specie di fenomeno radiante, che però dice: "Sai, non è tutto qui quello che so fare", al che i raggi prendono a muoversi, a danzare, e in modo del tutto naturale anche il suono comincia a scuotersi, a oscillare, così come capita. Poi le strutture iniziano a mutare, e dicono: "Bene, sei stato qui a osservare questa cosa mentre continuavo a descriverla fino al limite delle due dimensioni. Ora aggiungiamo una terza dimensione, ti arriverà proprio ora". Nel frattempo, continua: "Non stiamo procedendo solo così, muovendoci in questo modo, ora facciamo qualche piccolo ghirigoro, e poi in circolo, così. E prosegue: "Bene, non è che l'inizio, possiamo andare dappertutto, fare angoli retti e giravolte", all'improvviso potete vedere tutto sin nei minimi dettagli che diventano talmente intensi da poter contenere molte piccole figure all'interno di quella che pensavate fosse originariamente la figura principale. Il suono comincia a evolversi, raggiungendo una sorprendente complessità, onnipervadente, e tutto questo fenomeno continua ad andare avanti, avanti, avanti, finché pensate di stare per uscire di testa, e all'improvviso diventa... Ma sì, siamo noi, seduti qui intorno.

Grazie, grazie di cuore.




- da "La Via della Liberazione" di Alan Watts -


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