martedì 26 aprile 2011

Rodolfo Siri - Breathing (Nel Respiro)




"Il respiro è il ponte che connette la vita alla coscienza,
che unisce il corpo ai pensieri"
- Thich Nhat Hanh -


"Breathing (Nel Respiro)" di Rodolfo Siri

dall'album "Lost Harp" (2004)


http://www.lastfm.it/music/Rodolfo+Siri


domenica 17 aprile 2011

Il sentiero dell'amore


Padroneggiare una relazione dipende da voi. Il primo passo è diventare coscienti del fatto che ognuno ha il suo sogno personale. Quando sapete questo, potete prendervi la responsabilità della vostra metà del rapporto. E’ più facile controllare la vostra metà che cercare di controllare tutta la relazione. Se avete rispetto, sapete che il vostro partner, amico, figlio, madre, è completamente responsabile per la sua metà. Se lo rispettate ci sarà sempre pace tra voi, e non guerra.

Il passo successivo è quello di sapere cosa è amore e cosa è paura, per diventare coscienti del modo in cui comunicate agli altri il vostro sogno. La qualità della comunicazione dipende dalle scelte che fate in ogni momento. Si tratta di decidere se volete rivolgere il vostro corpo emozionale verso l’amore, o verso la paura. Se scoprite di essere sul sentiero della paura, questa consapevolezza è già abbastanza per darvi la possibilità di spostare la vostra attenzione verso il sentiero dell’amore. Basta vedere dove vi trovate, cambiare la direzione dell’attenzione, e intorno a voi tutto cambierà.

Infine, se diventate consapevoli che nessun altro può rendervi felici, perché la felicità è il risultato dell’amore che viene da dentro di voi, sarete maestri della più grande arte dei Toltechi: la Padronanza dell’Amore.

Possiamo parlare dell’amore, scriverci sopra migliaia di libri, ma in realtà l’amore sarà sempre diverso per ciascuno di noi, perché si tratta di un’esperienza. L’amore non è un concetto, è azione. L’amore in azione può produrre soltanto felicità. La paura in azione non produce altro che sofferenza.

L’unico modo di padroneggiare l’amore è quello di praticarlo. Non c’è bisogno di giustificare il vostro amore, o di spiegarlo. Basta soltanto praticarlo. La pratica crea il Maestro.


Don Miguel Ruiz


giovedì 7 aprile 2011

Il richiamo della foresta



Qua e là Buck incontrò dei cani del Sud, ma per la maggior parte erano eschimesi della razza dei lupi selvaggi. Ogni notte, regolarmente, alle nove, alle dodici ed alle tre, essi alzavano il loro canto notturno, un canto misterioso e strano a cui Buck si univa con gioia. Quando l'aurora boreale si illuminava fredda nell'alto, o le stelle saltavano nella danza del gelo, e la terra era intorbidita e assiderata sotto il suo manto di neve, questo canto degli eschimesi avrebbe potuto essere la sfida della vita, solo che era modulato in tono minore con lunghi lamenti e singhiozzi, e sembrava quasi la supplica della vita, la voce della fatica di esistere. Era un antico canto, antico quanto la stessa razza, uno dei primi canti del giovane mondo, in un periodo in cui le canzoni erano tristi. Era avvolto nel dolore di generazioni senza numero, un lamento che commuoveva Buck nel profondo. Quando egli si lamentava e singhiozzava, vi era in lui la pena del vivere che era stata l'antica pena dei suoi padri selvaggi, e insieme la paura e il mistero del freddo e del buio che erano stati la loro paura e il loro mistero. E il fatto che egli ne fosse così commosso, indicava l'intensità con cui ascoltava, attraverso la lontananza dei secoli dei primi fuochi e dei primi tetti, i rudi inizi della vita nell'età dei ruggiti.

[...]

Più di tutto, forse, gli piaceva star accanto al fuoco, accovacciato sulle zampe posteriori e con quelle anteriori stese avanti, la testa alta e lo sguardo assorto sulle fiamme. A volte pensava alla grande casa del giudice Miller nella vallata di Santa Chiara baciata dal sole, e alla grande vasca di cemento, e a Ysabel, la messicana senza pelo, e a Toots, il cagnolino giapponese; ma più spesso ricordava l'uomo della maglia rossa, la morte di Curly, la gran lotta con Spitz e le buone cose che aveva mangiato o desiderava mangiare. Non soffriva di nostalgia. La Terra del Sole svaniva nella lontananza, e quei ricordi non avevano potere su di lui. Molto più potenti erano i ricordi ereditari che gli facevano apparir familiari cose non mai viste. Gli istinti (che erano solo reminiscenze dei suoi antenati, divenute abitudini) indeboliti negli ultimi tempi, si risvegliavano adesso in lui e divenivano nuovamente vivi.

E sognando così sulle rive dell'Yukon, con i pigri occhi assorti sul fuoco, quei suoni e quei sospiri di un altro mondo gli facevano ergere il pelo sulla schiena, sulle spalle e sul collo, finché dava un gemito basso e soffocato o un fioco mugolio.

[...]

Quell'uomo gli aveva salvato la vita, e questo era qualche cosa; ma inoltre era il padrone ideale. Gli altri provvedevano al benessere dei loro cani per un senso di dovere, e di pratica utilità; lui invece lo faceva come se fossero stati suoi figli, perché non poteva fare altrimenti. E andava anche oltre. Non dimenticava mai di dar loro un saluto benevolo, di rivolger loro una buona parola, e si divertiva non meno di loro a sedersi in mezzo ai suoi cani facendo con loro lunghe conversazioni (a "chiacchierare", diceva). Aveva un modo particolare di prendere tra le mani il muso di Buck o di posare su quella di Buck la propria testa scuotendolo avanti e indietro, dicendogli affettuosamente parolacce che per Buck erano parole di amore. Buck non conosceva gioia più grande di quel rude abbraccio e del suono di quelle ingiurie mormorate, e ad ogni scossone gli sembrava che il cuore gli balzasse fuori dal petto tanta era la sua estasi. E quando, lasciato libero, balzava in piedi con la bocca ridente, gli occhi parlanti, la gola vibrante di suoni inarticolati, e rimaneva così immobile, John Thornton esclamava con riverenza: "Dio mio, non ti manca che la parola!".
Buck aveva un modo per esprimere il suo amore che sembrava un'aggressione violenta. Spesso afferrava tra i denti la mano di Thornton e stringeva così forte che l'impronta rimaneva per parecchio tempo nella carne. E come Buck interpretava le parolacce come parole d'amore, così l'uomo considerava quel finto morso come una carezza.

Ma nonostante questo grande amore per John Thornton, che sembrava rivelare l'influenza della mite civiltà, l'impeto che il primitivo del Nord aveva risvegliato in lui rimaneva vivo e attivo. Egli possedeva la fedeltà e la devozione, creature del fuoco e del tetto; e tuttavia manteneva la sua selvatichezza e la sua astuzia. Era una creatura della foresta, venuta dalla foresta per sedersi davanti al fuoco di John Thornton, piuttosto che un cane del mite Sud segnato dalle impronte di generazioni civili.

[...]

I cani non avevano nulla da fare se non trasportare ogni tanto la selvaggina uccisa da Thornton, e Buck trascorreva lunghe ore assorto accanto al fuoco. La visione dell'uomo peloso dalle gambe corte venne a lui più di frequente, adesso che c'era poco da fare; e spesso, guardando il fuoco, Buck errava con lui in quell'altro mondo che era il suo ricordo.

E vicinissimo alle visioni dell'uomo peloso era il richiamo che sempre risuonava nelle profondità della foresta. Quell'appello lo colmava di una grande irrequietudine e di strani desideri, provocava in lui una vaga, dolce felicità, ed egli si rendeva conto di selvaggi desideri e impulsi per cose che non conosceva. Qualche volta seguiva il richiamo nella foresta, cercandolo come se fosse una cosa tangibile, latrando dolcemente o a sfida, a seconda dell'umore. Cacciava il naso nel fresco muschio del bosco, o nella nera terra dove crescevano alte erbe, e fiutava con gioia i grassi odori del terreno; oppure stava acquattato per ore, come se si nascondesse, dietro i tronchi ricoperti di funghi o gli alberi abbattuti, con gli occhi e gli orecchi tesi a tutto ciò che si muoveva o risuonava intorno a lui. Forse, standosene così, sperava di sorprendere quel richiamo che non riusciva a capire. Ma non sapeva perché facesse tutto ciò. Era costretto a farlo, ma non poteva afferrarlo con il pensiero.
Impulsi irresistibili lo afferrarono. Se ne stava magari tranquillo nell'accampamento, sonnecchiando oziosamente nel caldo pomeriggio, quando a un tratto ergeva la testa con le orecchie dritte, tutte intese ad ascoltare, e poi balzava in piedi e si slanciava avanti, sempre avanti, per ore, attraverso gli intercolunni della foresta e le aperte radure dove crescevano folti i canneti. Gli piaceva correre nei letti asciutti dei torrenti, spiare la vita degli uccelli del bosco. A volte per un giorno intero se ne stava sdraiato nel sottobosco dove poteva osservare le pernici che andavano in su e in giù becchettando. Ma soprattutto gli piaceva correre nel cupo crepuscolo delle mezzenotti estive, ascoltando i soffocati e sonnolenti sussurri della foresta, interpretando segni e suoni così come un uomo può leggere un libro, e cercando quella misteriosa cosa che continuava, continuava a chiamarlo, nel sonno e nella veglia, ad ogni ora, perché la raggiungesse.
Una notte balzò dal sonno sussultando, l'occhio intento, le nari frementi, la criniera irta in onde ruggenti. Dalla foresta giungeva il richiamo (o per lo meno una nota di esso, ché il richiamo aveva molte note) distinto e definito come non mai: un lungo ululato, simile a un qualsiasi suono emesso da un cane eschimese, e tuttavia diverso. Ed egli lo riconobbe in quell'antico clima familiare come suono già udito. Balzò attraverso il campo addormentato, e rapido e silenzioso si precipitò tra i boschi. Via via che si avvicinava al grido rallentava la sua corsa, divenendo cauto in ogni movimento, finché giunse a una radura fra gli alberi e, spiando, vide, eretto sulle anche, il muso puntato al cielo, un lungo e sottile lupo dei boschi.

E corsero a fianco a fianco nel buio crepuscolo su per il letto del torrente, nella gola da cui scaturiva, e varcando la nuda cresta ove erano le sue sorgenti.
Sull'opposto pendio scesero in una regione pianeggiante con grandi distese di boschi e molti fiumi, e per queste distese corsero decisi, per ore e ore, mentre il sole saliva sempre più e il giorno diveniva sempre più caldo. Buck aveva una gioia selvaggia. Capiva di rispondere finalmente al richiamo correndo così a fianco del suo fratello del bosco verso il luogo da cui certo quel richiamo veniva. Antichi ricordi lo assalivano adesso, ed egli ne era eccitato come un tempo era eccitato dalla realtà di cui essi erano l'ombra. Aveva già fatto le stesse cose in qualche parte di quell'altro mondo oscuramente rievocato, e le ripeteva adesso correndo libero nell'aperto spazio con la terra vergine sotto i piedi e gli aperti cieli sul capo.

[...]

Per tutto il giorno Buck rimase meditando presso lo stagno o vagò senza riposo per il campo. La morte, come cessazione del movimento, come un passar oltre la vita di ciò che vive, la conosceva; e sapeva che John Thornton era morto. Questo lasciava in lui un gran vuoto, qualche cosa di simile alla fame, ma che doleva e doleva e che non vi era cibo che potesse saziarlo.

Scese la notte, e la luna piena si levò sugli alberi, alta nel cielo, illuminando la regione fino ad irrorarla di una spettrale luce. E col sopravvenir della notte, meditando e soffrendo presso lo stagno, Buck cominciò ad avvertire il fremito di una nuova vita nella foresta, diverso da quello che gli Yeehats vi avevano suscitato. Si drizzò ascoltando e fiutando. Dalla lontananza si levava un debole, acuto ululato seguito da un coro di ululati simili, che via via divenivano più fitti e più alti. Ancora una volta Buck li riconobbe come cose udite in quell'altro mondo che persisteva nella sua memoria. Si portò al centro della radura e si mise in ascolto. Era il richiamo, il richiamo dalle molte note che risuonava più allettante e imperioso che mai. E come mai prima di allora egli era pronto a obbedire. John Thornton era morto, l'ultimo legame era spezzato. L'uomo e le pretese dell'uomo non lo tenevano più avvinto.

[...]

E il vecchio lupo sedette, puntò il naso alla luna e ruppe nel lungo ululo del lupo. Gli altri sedettero e ulularono. E adesso il richiamo veniva a Buck in accenti inconfondibili. Si accosciò anche lui e ululò. Fatto questo, uscì dal suo angolo e il branco lo circondò annusandolo in modo tra amichevole e selvaggio. I capi levarono il latrato del branco e saltarono via, nei boschi. I lupi li seguirono latrando in coro. E Buck corse via con loro, a fianco del fratello selvaggio, latrando.

[...]

Nell'estate, tuttavia, vi è in quella valle un visitatore che gli Yeehats non conoscono. E' un grande lupo dalla meravigliosa pelliccia, simile agli altri lupi, e tuttavia diverso da loro. Arriva solitario dal ridente paese dei boschi e scende fino a una radura tra gli alberi. Là un rivo biondo fluisce da sacchi marciti di pelle d'alce e si disperde a terra; lunghe erbe e muschi lo ricoprono e nascondono al sole il suo giallo splendore. E là egli rimane per qualche tempo silenzioso, ululando una volta sola, a lungo e lugubremente, prima di partire.
Ma non sempre è solo. Quando vengono le lunghe notti d'inverno e i lupi seguono il loro cibo nelle vallate più basse, lo si può vedere correre alla testa del branco nella pallida luce lunare o nei chiarori crepuscolari dell'aurora boreale, balzando gigantesco sopra i suoi compagni, la vasta gola mugghiante mentre canta il canto del più giovane mondo, il canto del branco.


– Jack London, “Il richiamo della foresta” –


sabato 2 aprile 2011

Inneres Auge




Inneres Auge - Franco Battiato


Come un branco di lupi che scende dagli altipiani ululando
o uno sciame di api accanite divoratrici di petali odoranti
precipitano roteando come massi da altissimi monti in rovina.
Uno dice che male c'è
a organizzare feste private con delle belle ragazze
per allietare primari e servitori dello stato?
Non ci siamo capiti
e perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti?
Che cosa possono le leggi dove regna soltanto il denaro?
La giustizia non è altro che una pubblica merce...
di cosa vivrebbero
ciarlatani e truffatori
se non avessero moneta sonante
da gettare come ami tra la gente.

La linea orizzontale ci spinge verso la materia,
quella verticale verso lo spirito.

Inneres Auge
das innere Auge

Con le palpebre chiuse s'intravede un chiarore
che con il tempo e ci vuole pazienza,
si apre allo sguardo interiore:
inneres Auge, das innere Auge

La linea orizzontale ci spinge verso la materia,
quella verticale verso lo spirito.

Ma quando ritorno in me, sulla mia via,
a leggere e studiare,
ascoltando i grandi del passato...
mi basta una sonata di Corelli,
perché mi meravigli del creato


Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...