martedì 20 luglio 2010

Il Buddha vivente, il Cristo vivente



Entrare in comunione con il Cristo vivente

Quando invochiamo il nome del Buddha, evochiamo le stesse qualità del Buddha in noi stessi. Ci dedichiamo alla pratica per far sì che il Buddha diventi vivo dentro di noi, così da poter avere sollievo dalle afflizioni e dagli attaccamenti. Ma diverse persone che invocano il nome del Buddha lo fanno senza cercare veramente di raggiungere i semi del Buddha in loro stesse.

Si racconta la storia di una donna che invocava il nome del Buddha centinaia di volte al giorno senza mai attingere l'essenza di un Buddha. Dopo una pratica di dieci anni, traboccava ancora di collera e irritazione. Il suo vicino osservava la circostanza e un giorno, mentre ella stava invocando il nome del Buddha, bussò alla sua porta e gridò: "Signora Ly, aprite la porta!". La donna era molto seccata d'essere disturbata, suonò la sua campana molto forte affinché il vicino udisse che stava salmodiando e smettesse di disturbarla. Ma costui continuava a chiamarla: "Signora Ly, signora Ly, signora Ly, ho bisogno di parlarvi". La donna s'infuriò, gettò la sua campana a terra e scalpitò verso la porta esclamando: "Non vedete che sto invocando il nome del Buddha? Perché m'importunate ora?". Il vicino replicò: "Ho chiamato il vostro nome solo dodici volte e guardate come siete andata in collera. Immaginate come debba essere in collera il Buddha dopo che avete invocato il suo nome per dieci anni!".

I cristiani possono fare esattamente come la signora Ly se seguono soltanto meccanicamente i rituali o pregano senza essere veramente presenti. Ecco perché sono stati spronati dai maestri cristiani a praticare la "Preghiera del Cuore". Nel cristianesimo, come nel buddhismo, molte persone nella loro pratica ottengono poca gioia, sollievo, distensione, liberazione o grandezza d'animo. Anche se continuano per centinaia d'anni in quel modo, non entreranno mai in comunione con il Buddha vivente o il Cristo vivente. Se i cristiani che invocano il nome di Gesù sono presi solamente dalle parole, possono perdere di vista la vita e l'insegnamento di Gesù. Praticano solo la forma non la sostanza. Quando praticate la sostanza, la mente vi si schiarisce e raggiungete la gioia. I cristiani che pregano Dio devono anche apprendere a fondo l'arte di vivere del Cristo se vogliono penetrare nei suoi insegnamenti. È annaffiando i semi delle qualità ridestate che sono già in noi, praticando la consapevolezza, che entriamo in comunione con il Buddha vivente e il Cristo vivente.


La luce che rivela

Quando Giovanni Battista aiutò Gesù a entrare in comunione con lo Spirito Santo, il Cielo si aprì e lo Spirito Santo scese come una colomba e penetrò nella persona di Gesù. Egli si recò nel deserto e per quaranta giorni si esercitò a rafforzare lo Spirito dentro di Sé. Quando in noi germoglia la consapevolezza, dobbiamo continuare a praticarla se vogliamo consolidarla.

Ascoltando veramente il canto di un uccello o osservando veramente un cielo azzurro, tocchiamo il seme dello Spirito Santo dentro di noi. Per i bambini non è molto difficile riconoscere la presenza dello Spirito Santo. Gesù diceva che per entrare nel regno di Dio dobbiamo farci fanciulli. Quando l'energia dello Spinto Santo è in noi, siamo veramente vivi, siamo capaci di comprendere l'altrui sofferenza e motivati dal desiderio di contribuire a trasformare la situazione. Quando l'energia dello Spirito Santo è presente, sono presenti il Padre e il Figlio.

Discutere di Dio non è il migliore uso che possiamo fare della nostra energia. Se entriamo in contatto con lo Spirito Santo, ci accostiamo a Dio non quale concetto bensì quale realtà vivente. Nel buddhismo non parliamo mai del nirvana, perché nirvana significa estinzione completa di nozioni, concetti, discorsi. La nostra pratica consiste nell'attingere la consapevolezza in noi stessi sedendo in meditazione, camminando in meditazione, mangiando consapevolmente e così via. Osserviamo e apprendiamo a occuparci del corpo, del respiro, delle sensazioni, degli stati mentali e della coscienza. Vivendo nella consapevolezza, diffondendo la luce della nostra consapevolezza su tutto ciò che compiamo, entriamo in contatto con il Buddha e la nostra consapevolezza cresce.


La consapevolezza è il Buddha

Il Buddha fu un essere umano che si risvegliò e, di conseguenza, non fu più incatenato alle numerose afflizioni della vita. Ma allorché alcuni buddhisti affermano di credere nel Buddha, esprimono la loro fede nei meravigliosi Buddha universali, non nell'insegnamento o nella vita del Buddha storico. Credono nella magnificenza del Buddha e ritengono che sia sufficiente. Ma di estrema importanza sono gli esempi delle vite reali del Buddha e di Gesù, perché quali esseri umani essi vissero in modi che anche noi possiamo vivere.

Quando leggiamo: "Il cielo si aperse e lo Spirito Santo scese su di Lui come una colomba", possiamo renderci conto che Gesù era già illuminato. Era in contatto con la realtà della vita, la sorgente della consapevolezza, della saggezza e della comprensione nel Suo intimo, e ciò Lo rendeva diverso dagli altri esseri umani. Quand'Egli nacque nella famiglia di un falegname, era il Figlio dell'Uomo. Quando aperse il Suo cuore, Gli venne aperta la porta del Paradiso. Lo Spirito Santo discese su di Lui come una colomba, ed Egli si manifestò come il Figlio di Dio: santissimo, sapientissimo e grandissimo. Ma lo Spirito Santo non è un'esclusiva di Gesù: è per tutti noi. Secondo una prospettiva buddhista, chi non è figlia o figlio di Dio?

Sedendo sotto l'albero della Bodhi, innumerevoli, magnifici e santi semi sbocciarono ulteriormente nel Buddha. Egli era umano ma, al tempo stesso, si fece espressione del più elevato spirito dell'umanità. Quando siamo in contatto con il più elevato spirito in noi stessi, anche noi siamo dei Buddha, ricolmi di Spirito Santo, e diveniamo molto tolleranti, molto aperti, molto profondi e molto comprensivi.


Più porte per le generazioni future

Matteo descrive il Regno di Dio come fosse un minuscolo granello di senape. Ciò significa che il seme del Regno di Dio è dentro di noi. Se sappiamo come piantarlo nel terreno umido delle nostre vite quotidiane, quel seme crescerà e diverrà un grande arbusto su cui molti uccelli potranno trovare rifugio. Non dobbiamo morire per giungere alle porte del Paradiso.

Dobbiamo invece vivere veramente. La pratica consiste nello stare in profondo contatto con la vita in modo tale che il Regno di Dio divenga una realtà. Non è questione di devozione, si tratta di una questione di pratica. Il Regno di Dio è a disposizione qui e ora. Numerosi passi dei vangeli confortano questa visione. Leggiamo nel Padre Nostro che non andiamo nel Regno di Dio, ma che è il Regno di Dio a venire da noi: "Venga il Tuo regno...". Gesù disse: "Io sono la porta". Egli descrive Se stesso come la porta della salvezza e della vita eterna, la porta del Regno di Dio. Poiché Dio il Figlio è fatto dell'energia dello Spirito Santo, è per noi la porta d'ingresso al Regno di Dio.

Anche il Buddha viene descritto come una porta, un maestro che ci mostra la via in questa vita. Nel buddhismo una simile porta speciale è tenuta in profonda considerazione, perché quella porta ci permette di entrare nel regno della consapevolezza, dell'amorevolezza, della pace e della gioia. Si dice che esistano ottantaquattromila porte del Dharma, porte dell'insegnamento.

Se siete abbastanza fortunati da trovare una porta, non sarebbe molto buddhista affermare che la vostra è l'unica. In realtà, dobbiamo aprire un numero ancor più grande di porte per le generazioni future. Non dovremmo temere un maggior numero di porte del Dharma: se mai dovremmo temere che non se ne aprano più. Sarebbe un peccato per i nostri figli e i loro figli se ci ritenessimo soddisfatti con soltanto ottantaquattromila porte già disponibili. Ciascuno di noi, con la sua pratica e la sua amorevolezza, è in grado di aprire nuove porte del Dharma. La società è in evoluzione, la gente cambia, le condizioni economiche e politiche non sono le stesse dei tempi del Buddha o di Gesù. Il Buddha fa assegnamento su di noi perché il Dharma continui a svilupparsi come un organismo vivente, non un Dharma superato ma un autentico Dharmakaya, un vero "corpo della dottrina".


- da "Il Buddha vivente, il Cristo vivente" di Thich Nhat Hanh -


mercoledì 14 luglio 2010

L'illuminazione - Osho


L’illuminazione è la semplice realizzazione che tutto è come dovrebbe essere.

Questa è la definizione di illuminazione: tutto è come dovrebbe essere, tutto è perfetto così com’è. Hai questa sensazione... e di colpo sei a casa. Non ti manca nulla; sei una parte, una parte organica del Tutto così bello e straordinario. Ti rilassi in esso, ti arrendi a esso. Non esisti separatamente – tutte le separazioni sono scomparse.

Nasce una grande gioia, perché quando l’ego scompare non ci sono più preoccupazioni, quando l’ego scompare non c’è angoscia, quando l’ego scompare non c’è più la possibilità della morte. Questa è l’illuminazione, la comprensione che tutto è buono, tutto è bello – ed è bello esattamente com’è. Ogni cosa è in una straordinaria armonia, in accordo.


Osho



mercoledì 7 luglio 2010

Sulla strada che conduce a se stesso


Quando Siddharta lasciò il boschetto nel quale rimaneva il Buddha, il Perfetto, e nel quale rimaneva Govinda, allora egli sentì che in quel boschetto restava dietro di lui anche tutta la sua vita passata e si separava da lui. Su questa sensazione, che lo riempiva tutto, egli venne riflettendo mentre s’allontava a lento passo. Profondamente vi pensò, come attraverso un’acqua profonda si lasciò calare fino al fondo di questa sensazione, fin là dove riposano le cause ultime, poiché conoscere le cause ultime, questo appunto è pensare – così gli pareva – e solo per questa via le sensazioni diventano conoscenze e non vanno perdute, ma al contrario si fanno essenziali e cominciano a irradiare ciò che in esse è contenuto.

Rifletteva Siddharta nel suo lento cammino. Stabilì che non era più un giovinetto, ma era diventato un uomo. Stabilì che una cosa l’aveva abbandonato, così come il serpente viene abbandonato dalla sua vecchia pelle, che una cosa non era più presente in lui, che l’aveva accompagnato durante la sua giovinezza, e gli era appartenuta: il desiderio di avere maestri e di conoscere dottrine. L’ultimo maestro che era apparso sulla sua strada, il sommo e sapientissimo maestro, il più santo di tutti, il Buddha, anche questo egli l’aveva abbandonato, aveva dovuto separarsi da lui, non aveva potuto accogliere la sua dottrina.

Sempre più lento andava il pensieroso e si chiedeva frattanto: «Ma che è dunque ciò che avevi voluto apprendere dalle dottrine e dai maestri, e che essi, pur avendoti rivelato tante cose, non sono riusciti a insegnarti?». Ed egli trovò: «L’Io era, ciò di cui volevo apprendere il senso e l’essenza. L’Io era, ciò di cui volevo liberarmi, ciò che volevo superare. Ma non potevo superarlo, potevo soltanto ingannarlo, potevo soltanto fuggire o nascondermi davanti a lui. In verità, nessuna cosa al mondo ha tanto occupato i miei pensieri come questo mio Io, questo enigma ch’io vivo, d’essere uno, distinto e separato da tutti gli altri, d’essere Siddharta! E su nessuna cosa al mondo so tanto poco quanto su di me, Siddharta!».

Colpito da questo pensiero s’arresto improvvisamente nel suo lento cammino meditativo, e tosto da questo pensiero ne balzò fuori un altro, che suonava: «Che io non sappia nulla di me, che Siddharta mi sia rimasto così estraneo e sconosciuto, questo dipende da una causa fondamentale, una sola: io avevo paura di me, prendevo la fuga davanti a me stesso! L’Atman cercavo, Brahma cercavo, e volevo smembrare e scortecciare il mio Io, per trovare nella sua sconosciuta profondità il nocciolo di tutte le cortecce, l’Atman, la vita, il divino, l’assoluto. Ma proprio io, intanto, andavo perduto a me stesso».

Siddharta schiuse gli occhi e si guardò intorno, un sorriso gli illuminò il volto, e un profondo sentimento, come di risveglio da lunghi sogni, lo percorse fino alla punta dei piedi. E appena si rimise in cammino, correva in fretta, come un uomo che sa quel che ha da fare.

«Oh!» pensava respirando profondamente «ora Siddharta non me lo voglio più lasciar scappare! Basta! cominciare il pensiero e la mia vita con l’Atman e col dolore del mondo! Basta! uccidermi e smembrarmi, per scoprire un segreto dietro le rovine! Non sarà più lo Yoga-Veda a istruirmi, né l’Atharva-Veda, né gli asceti, né alcuna dottrina. Dal mio stesso Io voglio andare a scuola, voglio conoscermi, voglio svelare quel mistero che ha nome Siddharta!».

Si guardò attorno come se vedesse per la prima volta il mondo. Bello era il mondo, variopinto, raro e misterioso era il mondo! Qui era azzurro, là giallo, più oltre verde, il cielo pareva fluire lentamente come i fiumi, immobili stavano il bosco e la montagna, tutto bello, tutto enigmatico e magico, e in mezzo v’era lui, Siddharta, il risvegliato, sulla strada che conduce a se stesso. Tutto ciò, tutto questo giallo e azzurro, fiume e bosco penetrava per la prima volta attraverso la vista di Siddharta, non era più l’incantesimo di Mara, non era più il velo di Maya, non era più insensata e accidentale molteplicità del mondo delle apparenze, spregevole agli occhi del Brahmino, che, tutto dedito ai suoi profondi pensieri, scarta la molteplicità e solo dell’unità va in cerca. L’azzurro era azzurro, il fiume era fiume, e anche se nell’azzurro e nel fiume vivevan nascosti come in Siddharta l’uno e il divino, tale era appunto la natura e il senso del divino, d’esser qui giallo, là azzurro, là cielo, là bosco e qui Siddharta. Il senso e l’essenza delle cose erano non in qualche cosa oltre e dietro loro, ma nelle cose stesse, in tutto.

«Come sono stato sordo e ottuso!» pensava, e camminava intanto rapidamente. «Quand’uno legge uno scritto di chi vuol conoscere il senso, non ne disprezza i segni e le lettere, né li chiama illusione, accidente e corteccia senza valore, bensì li decifra, li studia e li ama, lettera per lettera. Io invece, io che volevo leggere il libro del mondo e il libro del mio proprio Io, ho disprezzato i segni e le lettere, a favore d’un significato congetturato in precedenza, ho chiamato illusione il mondo delle apparenze, ho chiamato il mio occhio e la mia lingua fenomeni accidentali e senza valore. No, tutto questo è finito, ora son desto, mi sono risvegliato nella realtà e oggi nasco per la prima volta».

Mentre rivolgeva tali pensieri, si fermò tuttavia improvvisamente, come se un serpente fosse apparso sulla strada davanti ai suoi piedi.

Poiché improvvisamente anche questo gli si era rivelato: egli, che nella realtà si trovava come un risvegliato o come un nuovo nato, doveva ricominciare interamente la sua vita. Ancora in quello stesso mattino, quando aveva lasciato Jetavana, il boschetto di quel Sublime, e già era in atto di ridestarsi, già era sulla strada che riconduce a se stesso, era stata sua intenzione e gli era parso perfettamente ovvio e naturale, dopo gli anni del suo noviziato ascetico, far ritorno a casa sua, da suo padre. Ma ora per la prima volta, proprio in quell’istante in cui egli s’era arrestato come se un serpente giacesse sulla sua strada, s’era destata in lui anche questa idea: «Io non sono più quel che ero, non sono più eremita, non sono più prete, non sono più Brahmino. Che dunque vado a fare a casa di mio padre? Studiare? Offrire sacrifici? Praticare la concentrazione? Tutto questo è passato, tutto questo non si trova più sul mio cammino». Immobile restò Siddharta, e per un attimo, la durata d’un respiro, un gelo gli strinse il cuore, ed egli lo sentì gelare nel petto come una povera bestiola, un uccello o un leprotto, quando s’accorse quanto fosse solo. Ora lo sentiva. Sempre, finora, anche nella più profonda concentrazione, egli era rimasto il figlio di suo padre, era stato Brahmino, d’alto ceto, un sacerdote. Adesso non era più che Siddharta, il risvegliato, e nient’altro. Trasse un profondo sospiro, e per un attimo si sentì gelare. Rabbrividì. Nessuno era così solo come lui. Non v’era un nobile che non appartenesse all’ambiente dei nobili, non v’era un manovale che non appartenesse all’ambiente dei manovali; e fra i loro pari tutti trovavano ricetto, ne condividevano la vita, ne parlavano la lingua. Non v’era un Brahmino che non fosse annoverato tra i suoi colleghi e non vivesse con loro, non v’era un eremita che non potesse trovar ricetto nella società dei Samana, e anche il più sperduto solitario della foresta non era uno e solo, anche lui era circondato da aderenti, anche lui apparteneva a una categoria che gli faceva da patria. Govinda s’era fatto monaco, e mille monaci erano suoi fratelli, portavano un abito come il suo, condividevano la sua fede, parlavano il suo linguaggio. Ma lui, Siddharta, a quale comunità apparteneva? Di chi condivideva la vita? Di chi avrebbe parlato il linguaggio?

Da questo momento in cui il mondo circostante parve disciogliersi intorno a lui, in cui egli rimase abbandonato come in cielo una stella solitaria, da questo momento di gelo e di sgomento Siddharta emerse, più di prima sicuro del proprio Io, vigorosamente raccolto. Lo sentiva: questo era stato l’ultimo brivido del risveglio, l’ultimo spasimo del nascimento. E tosto riprese il suo cammino, mosse il passo rapido e impaziente, non più verso casa, non più verso il padre, non più indietro.


– da “Siddharta” di Hermann Hesse


lunedì 5 luglio 2010

La differenza tra i sogni e il Reale

I Tarocchi Zen di Osho
20. Oltre le illusioni


Questa è la sola distinzione tra il sogno e il Reale: la realtà ti permette di dubitare, mentre il sogno non ti permette di dubitare...

A mio avviso, la capacità di dubitare è una delle benedizioni più grandi del genere umano. Le religioni sono nemiche perché hanno tagliato le radici stesse del dubbio, e c'è una ragione ben precisa per cui lo hanno fatto: vogliono che la gente creda in certe illusioni da loro insegnate...

Come mai persone come Gautama il Buddha hanno insistito tanto nel dire che l'intera esistenza - fatta eccezione per il tuo Sé testimoniante, fatta eccezione per la tua consapevolezza - è puramente effimera, fatta della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni? Non si vuol dire che questi alberi non esistano, né che non esistono queste colonne. Non fraintendere a causa del termine "illusione": è stato tradotto come illusione, ma non è la parola giusta.

L'illusione non esiste, la realtà esiste, maya è esattamente nel mezzo - è quasi esistente. Per ciò che riguarda le azioni quotidiane, può essere preso come realtà. Solo in senso assoluto, dalla vetta della tua illuminazione, diventa irreale, illusorio.

Osho The Great Zen Master Ta Hui Chapter 12


Commento:

La farfalla di questa carta rappresenta l'esterno, ciò che è continuamente in movimento e che non è reale, bensì illusorio. Dietro la farfalla si trova il volto della consapevolezza, che guarda all'interno ciò che è eterno. Lo spazio tra i due occhi si è aperto, rivelando il loto del manifestarsi dello spirito e il sole nascente della consapevolezza.

Tramite il sorgere del sole interiore, nasce la meditazione. La carta ci ricorda di non cercare all'esterno ciò che è reale, bensì di guardare all'interno. Quando mettiamo a fuoco le cose esteriori, troppo spesso veniamo intrappolati in giudizi: questo è bene, questo è male, voglio questo, non voglio quello. Questi giudizi ci tengono intrappolati nelle nostre illusioni, nel nostro sonno, nelle nostre vecchie abitudini e nei nostri schemi di comportamento.

Lascia cadere la tua mente e i suoi dogmi, e muoviti all'interno. Là ti puoi rilassare nella tua verità più profonda, dove è già nota la differenza tra i sogni e il Reale.


venerdì 2 luglio 2010

Waking Life - Risvegliare la Vita

- Dire sì a un unico singolo istante
equivale a dire sì all'intera esistenza -





Film di Richard Linklater (2001)

http://it.wikipedia.org/wiki/Waking_Life

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