giovedì 24 marzo 2011

Siate semplicemente consapevoli



Jiddu Krishnamurti


Vi prego di prestare ascolto a ciò che sto per dire. Fatelo mentre parlo. Non pensate a farlo, ma fatelo ora. Ecco, siate consapevoli degli alberi, delle palme, del cielo; ecco il corvo che gracchia; guardate la luce sulle foglie, il colore di quel sari, di quel volto, e poi tornate a voi, interiormente. Potete osservare, potete essere consapevoli incondizionatamente delle cose all’esterno, è molto facile. Ma portare l’attenzione a noi stessi ed essere ugualmente consapevoli, senza condannarci, né giustificarci, senza paragonarci a qualcun altro, è molto più difficile. Siate semplicemente consapevoli di ciò che accade dentro di voi, le vostre convinzioni, le paure, i dogmi, le speranze, le frustrazioni, le ambizioni e tutto il resto. Allora lo svelarsi del mondo conscio e inconscio comincia. Non dovete fare nulla.

Siate semplicemente consapevoli; questo è tutto ciò che dovete fare, senza giudizi, senza forzature, senza cercare di cambiare ciò di cui diventate consapevoli. Allora noterete che è come quando sale la marea, non potete impedire a una marea di arrivare; potete costruire un muro, potete fare quello che volete, ma la marea giungerà con la sua energia dirompente. Allo stesso modo, se siete consapevoli in modo incondizionato, l’intero campo della coscienza comincia a schiudersi. E mentre si schiude, dovete seguirlo, e ciò diventa incredibilmente difficile: seguire nel senso di stare con il movimento di ogni pensiero che sorge, di ogni sensazione, di ogni desiderio segreto. Diventa molto difficile nel momento in cui vi opponete, nel momento in cui dite: “Questo è spiacevole”, “questo è bene”, “questo è male”, “tratterrò questo”, “rifiuterò quest’altro”.

Perciò, cominciate con le cose all’esterno e poi muovete dentro di voi. Allora troverete, nell’interiorità, che esterno e interno non sono due cose diverse, che la consapevolezza di ciò che è all’esterno non è differente da quella rivolta all’interno, che entrambe sono la stessa cosa. Allora scoprirete che vivete nel passato; che non c’è mai un momento di vita attuale, presente; solo quando né il passato né il futuro vengono a esistere si è nel momento attuale. Scoprirete che vivete sempre nel passato, nei ricordi: ciò che avete vissuto, ciò che eravate, quanto eravate intelligenti, bravi, cattivi. Questa è la memoria. È per questo che dovete comprendere la memoria, non negarla, sopprimerla, o fuggirla. Se qualcuno ha fatto un voto di celibato, e si ricorda continuamente di quella decisione, quando smette di trattenere quel ricordo, o se ne scorda, si sente in colpa e questo soffoca la sua vita.

Allora voi cominciate a osservare ogni cosa, e per questo motivo diventate molto sensibili. Perciò, nell’ascoltare (cioè nell’osservare non solo il mondo esterno, i gesti esterni, ma anche la mente al suo interno, che vede e che, di conseguenza, sente, prova sensazioni), nell’essere così incondizionatamente consapevoli, allora non si genera alcuno sforzo. È di grande importanza comprenderlo.



Bombay, 28 febbraio 1965
- dal libro "Sulla mente e il pensiero" -



http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/krishnamurti/semplicemente.htm


martedì 15 marzo 2011

La verità del Tao


Il maestro si trovava vicino alla grande Pagoda Wyn Chou che si stagliava immensa, grande all'incirca come quella vera, al di là del fiume, dove il vecchio Gou Lin Dhao scrutava i suoi fantasmi nell'ombra. Riempiva quasi tutta la stanza di Huao Chyen che ormai preferiva dormire fuori dalla porta.

Quella mattina la costruzione della grande Pagoda era stata finalmente completata.
Era una delle cose più belle che il giovane Gou Lao Youn avesse mai visto; non ci si stancava mai di guardarla, specie al tramonto, quando i raggi rossi e obliqui del sole entravano nelle sue aperture, penetravano nei suoi prismi di carta e resina e la illuminavano di mille colori.

Per costruirla erano occorsi quasi tre anni di lavoro... con pazienza e perizia era stata edificata un poco alla volta, raccogliendo e intagliando mille pezzetti di pane secco, di foglie del grande giardino Botsiao di tutte le grandezze e colori, di fiori e aghi di pino lavorati, impastati insieme e manipolati per farli diventare minuscoli gradini di legno, infissi di microscopiche finestre, tegole d'oro del grande tetto ondulato, largo quasi quanto l'intera stanza di Huao Chyen, che erano state incastrate e giustapposte in un enorme, inafferabile mosaico.

Il discepolo si avvicinò con discrezione, forse quasi un reverenziale pudore, vedendo il proprio maestro assorto nella contemplazione di quell'opera maestosa.
"E' molto bello, maestro", sussurrò infine, con incontenibile ammirazione.
Il vecchio monaco distolse lo sguardo dalla Pagoda Wyn Chou e delicatamente lo condusse negli occhi commossi del ragazzo.
Sotto la saggezza di mille rughe pietrificate la piccola bocca, come una ferita di Wan Lao sull'albero del pesco, sorrideva serena e gentile con l'amore silenzioso di un vecchio padre.
Il giovane sorrise a sua volta e il suo petto vibrava di orgoglio. Guardò in terra, sul pavimento dove le quindici scale della Pagoda, come radici di un grande albero vorace, sembravano quasi lambire i suoi sandali whon dhou.

Ma quando rialzò la testa il suo sorriso scomparve.
Con occhi increduli vide il suo maestro sollevare in silenzio il braccio destro sopra la sua testa e colpire con violenza la mirabile struttura, una volta, una volta e una ancora, con le mani, con i piedi, gettandovisi con tutto il corpo finché non rimase più niente da guardare, solo un inutile cumulo di foglie, croste di pane dipinte, fiori secchi e paglia.

In un solo istante il paziente lavoro di tre anni si era dissolto nel nulla.
L'allievo guardò stupefatto e addolorato prima il cumulo poi il maestro; le sue labbra tremavano, gli occhi spalancati dallo stupore rigettavano quella scena e cercavano ancora le bellissime forme che pochi istanti prima li avevano riempiti con i loro colori. Il giovane stette in silenzio a lungo, corrucciato e attonito. Il maestro non parlava ancora ed egli non riusciva a reprimere profondi e desolati sospiri.

Allora il saggio si incurvò con grazia e dalle macerie raccolse un piccolo fiore di Wo Tu Tse e lo portò sotto i suoi occhi grandi e calmi facendone rotolare il gambo secco fra le dita.

"Mio caro Gou Lao Ryu", disse allora, "non dobbiamo pensare che le cose debbano durare per sempre; la loro natura è quella di cambiare continuamente sotto i nostri occhi e i nostri occhi cambiano con le cose... la vera bellezza non è una Pagoda Wyin Chou che sogna di sopravvivere al suo tempo... ma è il tempo stesso, con il suo respiro che crea e distrugge. E' il movimento del Tao in cui gli opposti si inseguono come due amanti, ma, bada Gou Lao Ryu, in nessuno di essi arderebbe la fiamma dell'amore se non ci fosse l'amato da inseguire. La grande Pagoda è inscritta nel cerchio infinito del tempi, essa è pagoda, è stata il pane che è avanzato dal nostro desco e prima ancora il grano per farlo, oggi è il piccolo fiore Wo Tu Tse che si sbriciola tra le mie dita. Tutte queste cose e nessuna di esse perché il prima e il dopo non esistono singolarmente; il passato, il presente e il futuro sono la stessa cosa e io e te siamo già morti, siamo ancora qui e dobbiamo ancora nascere... questa è infatti la verità del Tao".

L'allievo era stato in silenzio, il volto ancora corrucciato e gli occhi ubriachi di pensieri e di dolore. "Capisco maestro", disse infine, "la verità del Tao mi è ora più chiara...". Aprì la bocca per continuare ma la richiuse sopraffatto ancora dal vuoto che era subentrato a tanta pur effimera bellezza.
"Ma un'altra volta", aggiunse infine dopo un altro interminabile, pensieroso istante, "perché non butta giù la sua?"



- tratto da "La seconda che hai detto! Il libro di Quelo e di altra gente in grossa crisi" di Corrado Guzzanti -



sabato 12 marzo 2011

Ogni cosa è necessaria

I Tarocchi Zen di Osho
62. Confronto


Il confronto produce l'inferiorità e la superiorità. Quando non fai confronti, ogni inferiorità e ogni superiorità scompaiono. In questo caso sei, esisti semplicemente. Un piccolo cespuglio o un albero maestoso - non importa, sei te stesso. Sei necessario. Un filo d'erba è necessario tanto quanto la stella più grande. Senza quel filo d'erba, Dio sarebbe meno di ciò che è. Il canto del cuculo è tanto necessario quanto un buddha; il mondo sarebbe sminuito, sarebbe meno ricco, se questo cuculo scomparisse. Guardati intorno. Ogni cosa è necessaria, e ogni cosa si completa con le altre. È un'unità organica: nessuno è superiore e nessuno è inferiore; nessuno è più in alto e nessuno è più in basso. Tutti sono incomparabilmente unici.

Osho The Sun Rises in the Evening Chapter 4


Commento:

Chi è che ti ha detto che il bambù è più bello della quercia, o che la quercia ha più valore del bambù? Pensi che la quercia voglia avere un tronco cavo come questo bambù? O che il bambù sia invidioso perché la quercia è più grossa e le sue foglie cambiano colore in autunno? L'idea stessa che i due alberi facciano un confronto fra loro sembra ridicola, eppure sembra che noi esseri umani troviamo questa abitudine estremamente difficile da spezzare. Confrontati con quest'evidenza: ci sarà sempre qualcuno più bello, più capace, più forte, più intelligente, o apparentemente più felice di te. E, d'altra parte, esisteranno sempre persone che sono "meno" di te, sotto tutti questi punti di vista. La via per scoprire chi sei non passa per il confronto con gli altri, ma dal guardare per scoprire se stai realizzando le tue potenzialità nel modo migliore che conosci.


giovedì 3 marzo 2011

La voce del fiume


Lentamente fioriva, lentamente maturava in Siddharta il riconoscimento, la consapevolezza di ciò che realmente sia saggezza, qual fosse la meta del suo lungo cercare. Non era nient’altro che una disposizione dell’anima, una capacità, un’arte segreta di pensare in qualunque istante, nel bel mezzo della vita, il pensiero dell’unità, sentire l’unità e per così dire respirarla. Lentamente questo fioriva in lui, gli raggiava incontro dal vecchio volto infantile di Vasudeva: armonia, scienza dell’eterna perfezione del mondo, sorriso, unità.

Ma la ferita bruciava ancora: con amaro desiderio Siddharta pensava a suo figlio, nutriva in cuore l’amore e la tenerezza per lui, si lasciava consumare dal dolore, commetteva tutte le pazzie dell’amore. Non da sé si sarebbe mai spenta questa fiamma. E un giorno, che la ferita bruciava intensamente, Siddharta attraversò il fiume, sospinto dalla nostalgia, e scese dalla barca deciso ad andare in città e cercare suo figlio. Il fiume scorreva calmo e lieve – era la stagione asciutta – ma la sua voce aveva uno strano suono: rideva! Era chiaro che rideva. Il fiume rideva, rideva apertamente alle spalle del vecchio barcaiolo.

[...]

Il fiume rideva. Sì, era così, tutto ciò che non era stato sofferto e consumato fino alla fine si ripeteva, e sempre si soffrivano di nuovo gli stessi dolori. Ma Siddharta rimontò nella barca e fece ritorno alla capanna, ripensando a suo padre, ripensando a suo figlio, deriso dal fiume, in disaccordo con se stesso, vicino alla disperazione, e meno vicino a ridere sonoramente di sé e del mondo intero. Ahimè! non ancora fioriva la ferita, ancora si ribellava il suo cuore contro il destino, non ancora germogliavano serenità e vittoria dal suo soffrire. Tuttavia sentiva qualcosa come una speranza, e quando fu rientrato nella capanna sentì un irresistibile desiderio di aprirsi a Vasudeva, di rivelargli tutto, di raccontare tutto a lui, ch’era maestro nell’ascoltare.

Vasudeva sedeva nella capanna e intrecciava una cesta. Non guidava più la barca, i suoi occhi cominciavano a indebolirsi, e non solo gli occhi, ma anche braccia e mani. Soltanto la gioia e la serena benevolenza del suo viso fiorivano immutate.

Siddharta si pose a sedere accanto al vecchio, cominciò a parlare lentamente. Raccontò quelle cose di cui non avevano mai parlato, della sua andata in città, quella volta, della ferita ardente, della sua invidia alla vista dei padri felici, della sua vana lotta contro questi desideri di cui conosceva benissimo la stoltezza. Riferiva ogni cosa, anche le più penose, tutto poteva dire, tutto si sforzava di dire, tutto poteva raccontare e rivelare. Scopriva la propria ferita, raccontando anche della sua ultima fuga, quel giorno stesso, come si fosse imbarcato, fanciullino, col proposito di recarsi in città, e come il fiume ne aveva riso.

Mentre parlava – e parlò a lungo – mentre Vasudeva ascoltava tranquillo in volto, Siddharta sentiva quest’attrazione di Vasudeva più forte di quanto l’avesse mai sentita, sentiva i suoi dolori, i suoi affanni svanire, sentiva la sua segreta speranza prendere il volo e di laggiù venirgli di nuovo incontro. Mostrare la propria ferita a questo ascoltatore era lo stesso che lavarla nel fiume, finché diventasse fredda e una cosa sola col fiume. Mentre ancora continuava a parlare e a confessarsi, Siddharta sentiva sempre più che questo non era più Vasudeva, non era più un uomo che l’ascoltava, che questo immobile ascoltatore assorbiva in sé la sua confessione come un albero la pioggia, che questo uomo immobile era il fiume stesso, era Iddio stesso, era l’Eterno. E mentre Siddharta cessava di pensare a sé e alla propria ferita, questa scoperta del mutato essere di Vasudeva si impossessava di lui, e quanto più egli se n’accorgeva e ci s’immergeva, tanto meno la cosa diventava meravigliosa, tanto più egli scorgeva che tutto era in regola e naturale, che già da lungo tempo, forse da sempre Vasudeva era stato così, soltanto egli non se n’era mai reso conto pienamente. Sentiva ch’egli ora vedeva il vecchio Vasudeva come il popolo vede gli dèi, e che un simile stato non poteva durare; nel suo cuore cominciava già a prender congedo da Vasudeva. Con tutto ciò continuava a parlare.

Quand’egli ebbe finito, Vasudeva levò su di lui il suo sguardo affettuoso, un po’ indebolito dagli anni, non parlò, ma gli diffuse incontro in silenzio amore e serenità, comprensione e sapere. Prese per mano Siddharta, lo condusse al sedile presso la riva, sedette con lui, e sorrise al fiume.

«Tu l’hai sentito ridere» disse. «Ma non hai sentito tutto. Ascoltiamo, udrai ancor altro».

Ascoltarono. Lieve si levava il canto del fiume dalle molte voci. Siddharta guardò nell’acqua e nell’acqua gli apparvero immagini: apparve suo padre, solo, afflitto per il figliolo; egli stesso apparve, solo, anch’egli avvinto dai legami della nostalgia per il figlio lontano; apparve suo figlio, solo anche lui, avido ragazzo sfrenato sulla strada ardente dei suoi giovani desideri, ognuno teso alla sua meta, ognuno in preda alla sofferenza. Il fiume cantava con voce dolorosa, con desiderio, e con desiderio scorreva verso la sua meta, la sua voce suonava come un lamento.

«Odi?» chiese lo sguardo silenzioso di Vasudeva. Siddharta annuì.

«Ascolta meglio!» sussurrò Vasudeva.

Siddharta si sforzò d’ascoltar meglio. L’immagine del padre, la sua propria immagine, l’immagine del figlio si mescolarono l’una nell’altra, anche l’immagine di Kamala apparve e sparì, e così l’immagine di Govinda, e altre ancora, e tutte si mescolarono insieme, tutte si tramutarono in fiume, tutte fluirono come un fiume verso la meta, bramose, avide, sofferenti, e la voce del fiume suonava piena di nostalgia, piena di ardente dolore, d’insaziabile desiderio. Il fiume tendeva alla meta, Siddharta lo vedeva affrettarsi, quel fiume che era fatto di lui e dei suoi e di tutti gli uomini ch’egli avesse mai visto, tutte le onde, tutta quell’acqua si affrettavano, soffrendo, verso le loro mete. Molte mete: la cascata, il lago, le rapide, il mare, e tutte le mete venivano raggiunte, e a ogni meta una nuova ne seguiva, e dall’acqua si generava vapore e saliva al cielo, diventava pioggia e precipitava giù dal cielo, diventava fonte, ruscello, fiume, e di nuovo riprendeva il suo cammino, di nuovo cominciava a fluire. Ma l’avida voce era mutata. Ancora suonava piena d’ansia e d’affanno, ma altre voci si univano a lei, voci di grida e di dolore, voci buone e cattive, sorridenti e tristi, cento voci, mille voci. Siddharta ascoltava. Era ora tutt’orecchi, interamente immerso in ascolto, totalmente vuoto, totalmente disposto ad assorbire; sentiva che ora aveva appreso tutta l’arte dell’ascoltare. Spesso aveva già ascoltato tutto ciò, queste mille voci nel fiume; ma ora tutto ciò aveva un suono nuovo. Ecco che più non riusciva a distinguere le molte voci, le allegre da quelle in pianto, le infantili da quelle virili, tutte si mescolavano insieme, lamenti di desiderio e riso del saggio, grida di collera e gemiti di morenti, tutto era una cosa sola, tutto era mescolato e intrecciato, in mille modi contesto. E tutto insieme, tutte le voci, tutte le mete, tutti i desideri, tutti i dolori, tutta la gioia, tutto il bene e il male, tutto insieme era il mondo. Tutto insieme era il fiume del divenire, era la musica della vita. E se Siddharta ascoltava attentamente questo fiume, questo canto dalle mille voci, se non porgeva ascolto né al dolore né al riso, se non legava la propria anima a una di quelle voci e se non s’impersonava in essa col proprio Io, ma tutte le udiva, percepiva il Tutto, l’Unità, e allora il grande canto delle mille voci consisteva di un’unica parola, e questa parola era Om: la perfezione.

«Senti?» chiese di nuovo lo sguardo di Vasudeva. Chiaro splendeva il sorriso di Vasudeva, sopra tutte le rughe del suo vecchio volto aleggiava luminoso, così come l’Om si librava su tutte le voci del fiume. Chiaro splendeva il suo sorriso quando guardava l’amico, e chiaro splendeva ora lo stesso sorriso anche sul volto di Siddharta. La sua ferita fioriva, il suo dolore spandeva raggi, mentre il suo Io confluiva nell’Unità.

In quell’ora Siddharta cessò di lottare contro il suo destino, in quell’ora cessò di soffrire. Sul suo volto fioriva la serenità del sapere, cui più non contrasta alcuna volontà, il sapere che conosce la perfezione, che è in accordo con il fiume del divenire, con la corrente della vita, un sapere che è pieno di compassione e di simpatia, docile al flusso degli eventi, aderente all’Unità.


– da “Siddharta” di Hermann Hesse


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