martedì 29 novembre 2011

La luce interiore: tributo a George Harrison





The Beatles - Within You Without You (traduzione)

Dentro di te, Senza di te


Parlavamo delle distanze tra noi tutti
E della gente che si nasconde dietro un muro di illusione
Non intravede mai la verità
Poi è troppo tardi, quando muoiono

Parlavamo dell'amore che noi tutti potremmo condividere
Quando lo troviamo, dobbiamo fare del nostro meglio per tenerlo lì
Con il nostro amore, con il nostro amore potremmo salvare il mondo
Se solo sapessero

Cerca di capire che è tutto dentro di te
Nessun altro ti può far cambiare
E a vedere che sei davvero molto piccolo
E la vita scorre dentro di te e senza di te

Parlavamo dell'amore che è diventato così freddo
E della gente che conquista il mondo e perde la propria anima
Non sanno, non vedono
Sei uno di loro?

Quando vedi oltre te stesso
Puoi trovare la pace della mente lì che ti aspetta
E verrà il tempo in cui capirai che siamo tutti uno
E la vita scorre dentro di te e senza di te



The Beatles - The Inner Light (traduzione)

La luce interiore


Senza uscire di casa
Posso conoscere tutte le cose della Terra
Senza guardar fuori dalla finestra
Potrei conoscere le vie del Cielo

Più lontano si viaggia
Meno si conosce
Meno si conosce veramente

Senza uscire di casa
Potete conoscere tutte le cose della Terra
Senza guardar fuori dalla finestra
Potreste conoscere le vie del Cielo

Più lontano si viaggia
Meno si conosce
Meno si conosce veramente

Arriva senza viaggiare
Vedi tutto senza guardare
Fai tutto senza fare


sabato 19 novembre 2011

La vera essenza del sufismo



Quanti si accostano alle espressioni del sufismo o alle esposizioni che ne sono state fatte, possono trovarsi di fronte a due forme del tutto differenti fra di loro, corrispondenti alle due correnti determinate dai modi di sentire il sufismo stesso.

La prima corrente che potremmo definire “informale”, di natura esoterica e iniziatica con tendenza trascendentale, considera della massima importanza l’evoluzione psichica del Sé a prescindere dai mezzi con i quali la si può ottenere. È pertanto libera da schemi e da limitazioni specifiche, quali l’appartenenza dell’allievo alla religione musulmana, la conoscenza obbligatoria della lingua araba, il rigorismo formale dell’organizzazione in Ordini riconosciuti. Perciò ingloba tutte le vie per l’evoluzione dal Molteplice all’Uno, considerandone le varietà come necessari adattamenti ambientali. Ogni individuo, a prescindere da razza e religione, può avviarsi sul cammino dell’illuminazione liberandosi da qualsiasi limitazione. Pertanto il sufismo stesso non potrà venir confinato nel cerchio di una tradizionalità legittimante, o nell’ambito di una cultura e di un periodo storico. Le citazioni che traggo, ad esempio, da testi di Idries Shah, riguardano questo aspetto del sufismo.

La seconda corrente è ortodossa e storicistica. Per essa la forma esteriore e la programmazione tradizionale sono inalienabili. È sufi solamente colui che viene iniziato in un Ordine regolare; e il sufismo viene considerato il “midollo della religione islamica”. Annovera fra gli adepti anche dei fanatici, e fra questi non pochi persianofili. A volte però serve ad equilibrare il pericolo di una eccessiva libertà in cui può incorrere la corrente precedente (molti europei che hanno studiato il sufismo, hanno considerato solo l’aspetto proposto da questa corrente). Le citazioni che traggo, ad esempio da Seyyd Hossein Nasr si riferiscono a questo secondo modo di vedere.

[...]

Parrebbe così che vi possano essere due sufismi (e ognuno avrebbe a sua volta due aspetti): uno tradizionale, la cui storia è descrivibile rintracciandone le fonti, cui in generale si attengono quanti non hanno in realtà compenetrato il messaggio sufico; e uno di fuori dalla realtà storica e dalla tradizione, ed è forse ciò che l’umanità va cercando da sempre.

[...]

A ben guardare, tutto ciò divide: confraternite legittime e non legittime, d’Oriente e d’Occidente, settarismi e disposizioni classiste ed elitarie. Eppure l’essenza del sufismo mira a far capire che non debbono sussistere suddivisioni o differenze tra spirito in cammino e altri spirito in cammino, dal momento che tutti – presto o tardi – giungeranno ad una medesima meta. Nessuna costrizione a regole, che sempre si rivelano effimere!

E allora? Allora le fazioni sono l’aspetto esteriore. Una specie di frontiera oltre la quale transitano gli adepti validi; alla quale si fermano i “falsi maestri”, gli “allievi non realizzati”, quanti insomma si limitano ai formalismi esteriori e non hanno ancora afferrato la vera essenza del sufismo. È anche questa una prova, uno dei molti modi per vagliare le possibilità del postulante.

Per altro chi è sulla Via è in marcia, ma chi potrà mai dire d’essere arrivato?

Rimane comunque il fatto che l’essenza del sufismo non è un’etichetta, un atteggiamento; bensì uno stato dell’essere, un modo di vivere alla ricerca dell’Evoluzione del sé verso l’infinito essenziale. Entrambe le correnti precitate concordano nel definire il sufismo come “l’unità trascendente delle religioni”, intendendo con il termine di “religione” non un sottobosco di prevaricazioni, politicizzazioni, atti in violento contrasto morale e materiale con i princìpi stessi della fede. Poche persone sono in grado di pensare in termini di “fede”, di accettare che il prossimo creda con espressioni di fede differenti dalle proprie. Non sono poche le sétte religiose che si arrogano il diritto di avere il monopolio esclusivo di Dio. Ogni essere umano che non fa parte della loro sétta, sia egli anche uno spiritualista eminente, non viene accettato, e in altri tempi non veniva nemmeno lasciato vivere.

A questo proposito il sufi racconta una novelletta, che troverete in molti manuali d’Oriente variamente narrata:

Cinque uomini che compivano il pellegrinaggio alla Mecca s’erano incontrati strada facendo, percorreva insieme il cammino. Ad un certo momento trovarono per terra una moneta d’oro, e decisero di comperare qualcosa da mangiare.
«Io penserei a dell’angur», disse il persiano.
«No, prendiamo dell’uzum», replicò il turco.
«Io voglio dell’inab», tranciò l’arabo.
«Macché – soggiunse il greco – noi faremmo bene a comperare dello stafil».
«Niente! O prendiamo dello shvakh o me ne vado», urlò il mongolo.
Ne sorse una disputa, che degenerò presto in una lite. In quel mentre passava di lì un vecchio saggio, e i cinque si appellarono a lui. Gli spiegarono l’origine del contrasto, e quegli disse:
«Venite con me da un fruttivendolo, e io accontenterò tutti voi». Infatti comperò dell’uva, e i pellegrini allegramente lo ringraziarono. Infatti tutti e cinque volevano la stessa cosa, ma la chiamavano con i termini della propria lingua.

Così è necessario che colui che desidera giungere alla piena Realizzazione del Sé capisca anzitutto che i concetti di base sono tutti unici, e che non v’è differenziazione nelle varie razze, culture, religioni. Deve cioè sentirsi libero da etichette, settarismi, schemi, pretesti (consci o inconsci) politici e religiosi con i quali tende a dar libero sfogo alle proprie negatività. Deve essere libero da desideri, paure, ansie, superstizioni, angosce... Libero da limiti e costrizioni. Libero, vivendo però la vita d’ogni giorno, non rifugiandosi asceticamente in un mondo di rinuncia fobica o psicotica.

Così i sufi operano nel mondo, pur essendone ormai del tutto staccati; ed a questo mondo forniscono una carica vitale utile in molti e molti campi, dalla medicina all’arte, dalla ricerca al misticismo.

Allora – mi si dirà – i sufi sono semplicemente quei santi, scienziati, legislatori, artisti o governanti, che godono della stima universale. No!: pochi sufi sono stati applauditi in vita, né l’hanno voluto; alcuni anzi sono stati osteggiati, accusati, condannati alla tortura o alla morte; e in effetti a nessun vero maestro importò mai l’opinione dei contemporanei, nonché ogni altro ciarpame transitorio del mondo. Un maestro sufi, uno dei maggiori anche, può vestire abiti dimessi o ricchi, può essere tanto un eminente scienziato quanto un ignoto artigiano. Non è ciò che si vede quel che conta. Chi è davvero ricco non ha bisogno di dimostrarlo; ma chi è saggio sa anche che è saggio non dimostrarlo. Non sempre d’altronde si opera bene insegnando la Conoscenza a tutti. Nizâm adDîn Awliyâ’ († 1323), una delle figure più importanti della Chishtiyya, disse: «I re possono nascondere i loro tesori in due posti. Il primo, ovvio, è la camera del tesoro, robusta sì, ma che, oggetto delle mire altrui, può venire in molti modi depredata. Il secondo, più sicuro, è sotto una catapecchia in rovina, dove a nessuno verrebbe mai in mente di cercarlo».

Così, se chiederete a un sufi perché – pur vivendo in una società e quindi profittandone – non svela tutti i misteri che è giunto a penetrare; perché non li divulga in modo semplice o non semplifica il proprio modo di insegnare, probabilmente vi sentirete raccontare, a mo’ di risposta, la storielletta di Nasruddin che, sorpreso dai suoi compaesani a gettare del denaro in uno stagno, rispose loro: «Faccio così perché ieri stavo quasi per essere buttato in acqua dal mio asino che stava scivolando, quando le rane, con il loro improvviso gracidio, lo spaventarono, sicché per la paura si rimise in piedi, e io fui salvo. Perciò ricompenso le rane gettando loro del denaro».

Appunto: che se ne fanno le rane del denaro? Per questo il sufi nasconde piuttosto il suo tesoro, e non si lascia scegliere come maestro da chi vuole diventare suo allievo, ma è lui che sceglie l’allievo. E non perché si considera “superiore”, bensì perché è differente da quanti operano secondo condizionamenti appresi.


– da “Il sufismo vertice della piramide esoterica”
di Gabriele Mandel



domenica 6 novembre 2011

La maturità è una rinascita spirituale



Maturità vuol dire riconquistare la tua intelligenza perduta, rivendicare il tuo paradiso, tornare a essere un bambino. Naturalmente non allo stesso modo, perché il bambino comune è destinato a corrompersi: quando recuperi la tua infanzia, diventi incorruttibile. Nessuno può corromperti, perché ora sei diventato intelligente: sai ciò che ti ha fatto la società, e sarai attento e consapevole che la cosa non si ripeta, non lo permetterai più.

La maturità è una rinascita, una rinascita spirituale. Torni a essere un bambino, cominci a guardare l’esistenza con occhi freschi; ti avvicini alla vita con l’amore nel cuore; penetri nel tuo centro più profondo con silenzio e innocenza. Non sei più confinato alla testa, ora è al tuo servizio, la usi. Come prima cosa diventi il cuore, poi trascendi anche quello. Andare oltre i pensieri e i sentimenti, e diventare pura entità, è maturità. La maturità è la fioritura suprema della meditazione.

Una volta Gesù si trovava sulla piazza del mercato e qualcuno gli chiese: “Chi è degno di entrare nel Regno di Dio?”.

Si guardò intorno: c’era un rabbino, che si deve essere fatto un po’ avanti pensando di essere il prescelto, ma così non fu. C’era l’uomo più virtuoso della città, il moralista, il puritano; si fece un po’ avanti sperando di venire indicato, ma così non fu.

Si guardò intorno: vide un piccolo bambino che non si era mosso di un centimetro, perché non si aspettava di venir chiamato. Era inimmaginabile che fosse chiamato; stava semplicemente godendosi la scena, ascoltando Gesù che parlava alla gente.

Gesù chiamò il bambino, lo prese in braccio e disse alla folla: “Solo chi è come questo bambino è degno di entrare nel Regno di Dio”.

Ricorda, disse: “Solo chi è come questo bambino...”. Non: “Chi è un bambino...”; la differenza è enorme. Non ha detto: “Questo bambino entrerà nel Regno di Dio”, perché è inevitabile che tutti i bambini si perdano e si corrompano. È inevitabile che ogni Adamo e ogni Eva siano cacciati dal giardino dell’Eden e si perdano. L’unico modo di riconquistare la vera infanzia è perderla. È molto strano, ma è così che funziona la vita; è paradossale, ma la vita è un paradosso. Per conoscere la bellezza autentica della tua infanzia la devi prima perdere, altrimenti non la conoscerai mai.

Il pesce ignora completamente dove sia il mare, a meno che tu non lo tiri fuori dall’acqua e lo metti sulla sabbia, al sole rovente. Lì egli saprà dov’è il mare. Lo desidererà, farà ogni sforzo per tornarvi, salterà nell’acqua. È lo stesso pesce e al tempo stesso non lo è più. È lo stesso mare e al tempo stesso non lo è più, perché il pesce ha imparato una nuova lezione. Adesso è consapevole: “Questo è il mare e questa è la mia vita. Senza di esso io non esisto più, poiché sono una sua parte”.

Tutti i bambini devono perdere la propria innocenza e riconquistarla. Perderla è solo metà del processo. Molti l’hanno persa, ma pochissimi l’hanno riconquistata. Questa è una sfortuna enorme, un’autentica disgrazia. Tutti la perdono, ma raramente un Buddha, uno Zarathustra, un Krishna o un Gesù la riconquistano.

Gesù non è altri che Adamo che torna a casa. Maddalena non è altri che Eva che torna a casa. Sono usciti dal mare e hanno conosciuto la miseria e la stupidità. Hanno visto che non c’è felicità fuori dal mare.

Quando diventi consapevole che appartenere a una religione, a una cultura o a una società vuol dire restare infelici e prigionieri, in quello stesso giorno cominci a sciogliere le tue catene. La maturità sta arrivando; stai recuperando la tua innocenza.

I bambini non sono santi, ma i santi – quelli veri – sono bambini. Il bambino possiede la stessa qualità, ma ne è inconsapevole. E che senso ha avere qualcosa se non ne sei consapevole? Potresti essere proprietario di un grande tesoro e non saperlo: sarebbe come se non lo avessi. Averlo o non averlo non farebbe differenza.

Un uomo ricchissimo era molto confuso perché per tutta la vita si era sforzato di diventare ricco e finalmente ce l’aveva fatta. Era diventato l’uomo più ricco del pianeta, ma non era felice. Pensava che bastasse diventare ricchi per essere felici, e si sentiva molto frustrato, com’è destino di tutte le persone di successo: allora cominciò ad andare in giro alla ricerca di un saggio che lo aiutasse a raggiungere la felicità.

Qualcuno gli suggerì un Maestro sufi. Egli si recò da lui su uno splendido cavallo e con una borsa carica di diamanti, forse i più preziosi del mondo. Disse al Maestro: “Possiedo tutti questi brillanti, ma non una goccia di felicità. Come posso ottenerla? Puoi aiutarmi?”.

Il Maestro fece un balzo, afferrò la borsa e scappò via: il ricco non credeva ai propri occhi. Lo inseguì piangendo e urlando: “Sono stato derubato! Mi hanno ingannato! Quest’uomo non è un Maestro, ma un ladro! Prendetelo!”.

Il Maestro conosceva a perfezione le strade, le vie e i vicoli di quel villaggio, e riuscì a seminare il ricco, che, non avendo mai inseguito nessuno, si trovava in difficoltà. Una folla cominciò ad andargli dietro: conoscevano il Maestro sufi e i suoi strani metodi.

Alla fine fecero ritorno all’albero sotto il quale il ricco aveva trovato seduto il Maestro: vi ritrovarono il Maestro, insieme alla borsa. Il ricco si fece avanti e il Maestro gliela ridiede; l’uomo se la portò al cuore, dicendo: “Sono così felice di aver ritrovato il mio tesoro perduto!”.

Il Maestro disse: “Hai avuto un assaggio della felicità? Se non la perdi non puoi sentirne il sapore. Io te l’ho fatta perdere... questo è il modo di assaporare la beatitudine: perdere qualcosa”.

Se riesci a perdere il tuo ego, otterrai te stesso, ciò che il Buddha chiama il non-sé. Lo chiama non-sé per la semplice ragione che non è più il tuo ego: non ne conserva neppure l’ombra. Perdi l’ego e otterrai il Sé, o non-sé; perdi la mente e otterrai la consapevolezza; muori al passato e rinasci la presente: così otterrai la maturità.

Maturità è vivere nel presente, pienamente vigile e consapevole della bellezza e dello splendore dell’esistenza.


– da “La via del cuore” di Osho


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