lunedì 27 settembre 2010

E' tempo di aspettare per fare qualcosa di grande importanza

I Tarocchi Zen di Osho
74. La pazienza


Abbiamo dimenticato come aspettare: è uno spazio praticamente abbandonato. Essere in grado di aspettare il momento giusto è il nostro bene più prezioso. L'intera esistenza aspetta il momento giusto. Perfino gli alberi lo sanno - quando è tempo di fiorire e quando è tempo di far cadere le foglie ed ergersi nudi verso il cielo. Ancora conservano una loro bellezza in quella nudità, in attesa del nuovo fogliame, immersi in una fiducia profonda: il vecchio se n'è andato e ben presto arriverà il nuovo, e i nuovi germogli inizieranno a spuntare. Noi abbiamo dimenticato come aspettare: vogliamo tutto e in fretta. Questa è una grossa perdita per l'umanità... In silenzio e nell'attesa, qualcosa in te continua a crescere - il tuo essere autentico. E un giorno balzerà fuori e diventerà una fiamma, e annienterà la tua personalità: sarai un uomo nuovo! E questo uomo nuovo sa a quale grande cerimonia partecipa, conosce il nettare eterno della vita.

Osho Zen: The Diamond Thunderbolt Chapter 10


Commento:

Ci sono momenti nei quali la sola cosa da fare è aspettare. Il seme è stato seminato, il bambino sta crescendo nel ventre, l'ostrica sta intessendo il granello di sabbia, tramutandolo in una perla. Questa carta ci ricorda che questo è un tempo in cui la sola cosa che ci venga richiesta è essere attenti, pazienti, in attesa. La donna qui raffigurata è proprio in quest'atteggiamento. Appagata, senza alcuna traccia d'ansia, è semplicemente in attesa. Attraverso tutte le fasi lunari che scorrono sopra la sua testa, rimane paziente, in profonda sintonia con i ritmi della luna, al punto da essersi praticamente unita a lei. La donna sa che è tempo di essere passivi, lasciando che la natura faccia il suo corso. Ma non è né assonnata né indifferente; sa che deve tenersi pronta per qualcosa di grande importanza. È un'epoca colma di mistero, come lo sono le ore che precedono l'alba. È un momento in cui la sola cosa da fare è aspettare.


giovedì 23 settembre 2010

La poesia non è fuori: è dentro.




- dal film "La tigre e la neve" di e con Roberto Benigni -


mercoledì 15 settembre 2010

Perché la vita non muore.

In ricordo di Oriana Fallaci





- da “Lettera a un bambino mai nato” -


Mi hanno salutato con grande entusiasmo, come se fossi stata ammalata a un piede o a un orecchio ed ora mi accingessi a trascorrere una convalescenza. Si sono congratulati per il lavoro che son riuscita a condurre a termine malgrado-le-difficoltà. Mi hanno portato a mangiare. E non una parola su te. Quando ho tentato io, hanno assunto un’aria tra evasiva e imbarazzata: quasi alludessi a un argomento sgradevole o volessero dirmi non-ci-pensiamo-più-quel-che-è-stato-è-stato. Più tardi la mia amica m’ha preso da parte e, col tono di ricordarmi un appuntamento importante, ha detto d’essersi consultata col medico il quale sostiene che non è il caso di contare su una tua partenza spontanea: se non ti faccio togliere, muoio di setticemia. Sì, bisogna che mi decida: sarebbe paradossale se, per ristabilir l’equilibrio, tu uccidessi me. Ho ancora tante cose da fare. Tu non le hai incominciate, ma io sì. Ho da sviluppare la mia carriera, ad esempio, e dimostrare che non sono meno brava di un uomo. Ho da battermi contro le comodità dei punti esclamativi, ho da indurre la gente a porsi più perché. Ho da spegnere la pietà per me stessa, e convincer me stessa che il dolore non è il sale della vita. Il sale della vita è la felicità, e la felicità esiste: consiste nel darle la caccia. Infine devo ancora chiarire il mistero che chiamiamo amore. Ma non quello che si divora in un letto, toccandoci: quello che mi accingevo a conoscer con te... Mi manchi, bambino. Mi manchi quanto mi mancherebbe un braccio, un occhio, la voce: e tuttavia mi manchi meno di ieri, meno di stamani. È strano. Si direbbe che di ora in ora il tormento si affievolisca per chiudersi in una parentesi. I lupi hanno già incominciato a chiamarmi, e non importa se sono lontani: quando si avvicineranno, lo sento, li seguirò. Davvero ho sofferto così profondamente ed a lungo? Me lo chiedo con incredulità. Una volta lessi in un libro che la durezza di una pena sopportata si avverte soltanto quando ce ne siamo liberati e, stupefatti, si esclama: come ho fatto a tollerare un simile inferno? Dev’essere davvero così, e la vita è straordinaria: rimargina le ferite a una velocità folle. Se non restassero le cicatrici, non ci ricorderemmo nemmeno che di lì sgorgò il sangue. Del resto anche le cicatrici svaniscono. Impallidiscono e infine svaniscono. Succederà anche a me.

Succederà? Deve succedere! Perché lo pretendo, lo esigo. Infatti ora stacco il tuo ritratto dal muro, la smetto di farmi impressionare dai tuoi occhi spalancati. E nascondo le altre fotografie. Anzi le strappo. E faccio a pezzi questa culla che mi son portata dietro come una bara. La scaravento nell’inceneritore. E regalo il tuo guardaroba. Anzi lo straccio. E prendo appuntamento col medico, gli dico che sono d’accordo, che bisogna strapparti via. E magari chiamo tuo padre, o non importa chi, e stasera vado con lui. Perché io sono viva... così viva che non accetto processi, non accetto verdetti, neanche il tuo perdono... E perché i lupi non sono lontani. Sono già qui, ed io posso partorirti cento volte senza implorare soccorso né a Dio né a nessuno... Dio, che male! Mi sento male, ad un tratto. Cos’è? Di nuovo le coltellate. Si allungano fino al cervello come allora, per bucarlo come allora... Sto sudando. Mi sale la febbre. È arrivato il nostro momento, bambino... Il momento di separarci... E non vorrei... Non voglio... Non voglio che ti strappino come un dente cariato, per gettarti nella pattumiera tra il cotone sporco e le garze... Ma non ho scelta. Se non ti strappano via, mi ammazzi. E tu sbagliavi, tu sbagli, a pensare che io non credo alla vita... Ci credo, ci credo! E mi piace. Anche con le sue ingiustizie, le sue tristezze, le sue infamie... E intendo viverla ad ogni costo. Io corro, bambino. E ti dico addio con fermezza.


Sopra di me c’è un soffitto bianco e accanto a me, dentro un bicchiere, ci sei tu. Non volevano che ti vedessi ma li ho convinti affermando che era mio diritto e ti hanno posato lì: con una smorfia di disapprovazione. Ti guardo, finalmente. E mi sento beffata perché non hai proprio nulla in comune con il bambino della fotografia. Non sei un bambino: sei un uovo. Un uovo grigio che galleggia in un alcool rosa e dentro il quale non si scorge nulla. Finisti assai prima che se ne accorgessero: non arrivasti mai ad avere le unghie e la pelle e le infinite ricchezze che io ti regalavo. Creatura della mia fantasia, riuscisti appena a realizzare il desiderio di due mani e due piedi, qualcosa che assomigliava ad un corpo, l’abbozzo di un volto con un nasino e due microscopici occhi. In fondo amai un pesciolino. E per amore di un pesciolino mi inventai un calvario in seguito al quale rischio di finire anch’io. È inaccettabile. Ma perché non ti ho fatto togliere prima? Perché ho perso tanto tempo prezioso lasciando che tu mi avvelenassi? Sto male, sembrano tutti allarmati. Mi hanno infilato aghi nel braccio destro e nel polso sinistro, dagli partono tubi sottili che salgono come serpenti fino ai boccioni. L’infermiera si aggira con passi d’ovatta. Ognitanto entra il dottore con un altro dottore e si scambiano frasi che non capisco ma che suonano come minacce. Darei molto perché arrivassero la mia amica o tuo padre, meglio ancora i miei genitori: m’era parso di udirne le voci. Invece non viene nessuno fuorché quei due col camice bianco: uno è lo stesso che mi condannò? Un momento fa s’è arrabbiato. Ha detto: «Raddoppiate la dose!». La dose di che? Della pena? L’ho già scontata, devo ricominciare? Poi ha detto: «Svelti, non capite che se ne va?». Chi se ne va? Non tu... Tu sei già morto... Morto senza sapere cosa significa essere vivo: senza sapere cosa sono i colori, i sapori, gli odori, i suoni, i sentimenti, il pensiero. Mi dispiace: per te e per me. Mi umilia. Perché a cosa serve volare come un gabbiano dentro l’azzurro se non si generano altri gabbiani che ne genereranno altri ancora ed ancora per volare dentro l’azzurro? A cosa serve giocare come bambini se non si generano altri bambini che ne genereranno altri ancora ed ancora per giocare e divertirsi? Dovevi resistere. Dovevi combattere, vincere. Hai ceduto troppo presto, ti sei rassegnato troppo alla svelta: non eri fatto per la vita. Chi si spaventa per un paio di fiabe, per due o tre avvertimenti? Eri simile a tuo padre: lui trova comodo riposarsi in Dio, tu trovasti comodo riposarti non nascendo. Chi di noi due ha tradito? Non io. Sono molto stanca, non sento più le gambe, a intervalli mi si annebbiano gli occhi e il silenzio m’avvolge come un ronzio di vespe. Eppure non cedo, io, guarda. Tengo duro, io, guarda. Siamo talmente differenti. Non devo addormentarmi. Devo stare sveglia e pensare. Se penso, forse, resisto. Da quando stai in quel bicchiere? Da ore, da giorni, da anni? Magari sono giorni e a me sembrano anni: non posso lasciarti ancora in un bicchiere. Bisogna che ti sistemi in un posto più dignitoso: ma dove? Forse ai piedi della magnolia. Il fatto è che la magnolia è lontana: si trova nel tempo in cui anch’io ero piccina. Il presente non ha magnolie. Nemmeno la mia casa. Dovrei portarti a casa. Al mattino, però. Ora è notte: il soffitto bianco sta diventando nero. E fa freddo. Meglio che infili il cappotto per scendere giù. Via, andiamo: ti porto. Vorrei tenerti fra le braccia, bambino. Ma sei così minuscolo: non posso tenerti fra le braccia. Posso appoggiarti sulla palma di una mano ed è tutto. Purché un colpo di vento non ti rubi. Ecco una cosa che non capisco: può rubarti un colpo di vento e tuttavia pesi tanto, barcollo. Dammi la mano, ti prego: così. Bravo. Ora sei tu che mi conduci, mi guidi. Ma allora non sei un uovo, non sei un pesciolino: sei un bambino! Mi arrivi già al ginocchio. No, al cuore. Non, alla spalla. No, al di sopra della spalla. Non sei un bambino, sei un uomo! Un uomo con dita forti e gentili. Ne ho bisogno ormai: sono vecchia. Non riesco nemmeno a scendere i gradini se non mi sorreggi. Ricordi quando andavamo su e giù per questa scala, attenti a non cadere, stretti l’uno all’altra in un abbraccio di complicità? Ricordi quando ti insegnavo ad andarci da solo, camminavi da poco, e contavamo i gradini ridendo? Ricordi come imparavi aggrappandoti ad ogni sporgenza, ansimando, mentre io ti seguivo con le mani tese? E il giorno in cui litigammo perché non ascoltavi le mie raccomandazioni? Dopo mi dispiacque. Volevo chiederti scusa ma non mi riusciva. Ti cercavo di sotto le ciglia e anche tu mi cercavi di sotto le ciglia finché ti fiorì sulle labbra un sorriso e compresi che avevi compreso. Poi cosa accadde? Il mio pensiero si appanna... le mie palpebre sembrano piombo... È il sonno o la fine? Non devo cedere al sonno, alla fine. Aiutami a restare sveglia, rispondimi: fu difficile usare le ali? Ti spararono in molti? Gli sparasti a tua volta? Ti oppressero nel formicaio? Cedesti alle delusioni e alle rabbie oppure rimanesti dritto come un albero forte? Scopristi se c’è la felicità, la libertà, la bontà, l’amore? Spero che i miei consigli ti siano serviti. Spero che tu non abbia mai urlato l’atroce bestemmia “perché sono nato?”. Spero che tu abbia concluso che ne valeva la pena: a costo di soffrire, a costo di morire. Sono così orgogliosa d’averti tirato fuori dal nulla a costo di soffrire, a costo di morire. Fa davvero freddo e il soffitto bianco ora è proprio nero. Ma siamo arrivati, ecco la magnolia. Cogli un fiore. Io non ci sono mai riuscita, tu ci riuscirai. Alzati sulla punta dei piedi, allunga un braccio. Così. Dove sei? Eri qui, mi sorreggevi, eri grande, eri un uomo. E ora non ci sei più. C’è solo un bicchiere di alcool dentro il quale galleggia qualcosa che non volle diventare un uomo, una donna, che non aiutai a diventare un uomo, una donna. Perché avrei dovuto, mi chiedi, perché avresti dovuto? Ma perché la vita esiste, bambino! Mi passa il freddo a dire che la vita esiste, mi passa il sonno, mi sento io la vita. Guarda, s’accende una luce... Si odono voci... Qualcuno corre, grida, si dispera... Ma altrove nascono mille, centomila bambini, e mamme di futuri bambini: la vita non ha bisogno né di te né di me. Tu sei morto. Ora muoio anch’io. Ma non conta. Perché la vita non muore.


sabato 11 settembre 2010

Lo stato di non-mente


Per esempio, sul lavoro vi dicono che sono necessari dei tagli al personale e quindi è molto probabile che perderete il vostro posto “sicuro” entro qualche mese. Il responsabile del personale vi consiglia di cominciare a cercare qualcos’altro.

Altro esempio: il partner che amate in questo momento, vi dice che ha conosciuto un’altra persona, di norma questa persona può dargli qualcosa che voi non potete dare, quindi – alla pari del vostro responsabile del personale – vi consiglia di cominciare a cercare qualcos’altro! Ma... ovviamente... si può sempre restare buoni amici!

Cosa accade nelle ore e nei giorni successivi?
Il centro mentale e quello emotivo immediatamente si coalizzano – in oriente questa “associazione a delinquere” viene chiamata kama-manas – per cercare di sopravvivere alla situazione pericolosa che si è venuta a creare. Questo significa in termini pratici che il plesso solare si surriscalda, si contrae, fa male, provoca senso di nausea, mentre l’intero corpo emotivo vibra. Le vibrazioni del corpo emotivo raggiungono il mentale, il quale inizia a produrre pensieri in maniera incontrollata. I pensieri mentali sono legati al tempo, quindi saranno tutti ricordi del passato e anticipazioni del futuro.

Nel primo esempio, quello del lavoro, comincerete a pensare agli anni trascorsi in quella azienda: le promesse che vi avevano fatto, i successi ottenuti, i colleghi simpatici e quelli antipatici, le ingiustizie subite in silenzio, la pazienza e la dedizione verso il lavoro che avete mantenuto in maniera costante (questo in realtà non è mai avvenuto... ma in questa situazione alla vostra mente sembrerà di ricordare di averlo fatto!). Poi pensate al futuro: che cosa farete adesso? Da domani dovete cominciare a cercare lavoro... da chi andrete per primo? Come vi organizzerete? E se non doveste trovare nulla nei prossimi mesi? Cavolo... la moglie... i bambini... Che situazione terribile! Perché proprio a voi? Dove avete sbagliato? A tratti, vi viene quasi voglia di farla finita.
Ogni volta che pensate a tutto questo – essendosi emotivo e mentale coalizzati – il plesso solare vi fa ancora più male, cioè soffrite ancora di più.

Nel secondo esempio, quello della coppia, comincerete a pensare agli anni – a volte anche solo mesi – trascorsi con quella persona: le promesse che vi aveva fatto, i momenti divertenti trascorsi insieme, le chiacchierate sugli argomenti in comune, i progetti, la fusione nel sesso, lo stare abbracciati, l’odore dell’altro, lo sguardo, il modo di muoversi, i sacrifici fatti per lui/lei... Poi pensate al futuro: magari torna (no, non torna... ma in questa situazione alla vostra mente piace immaginare l’altro che batte sull’uscio di casa implorando di poter tornare con voi!), se lo rincontrate gli dovete dire questo e poi questo, e anche se lui risponde così, poi voi rispondete così (ore di dialoghi immaginari, che non sono mai avvenuti e forse non avverranno mai), immaginate cosa avreste potuto fare insieme e non potrete più fare, non riuscite a immaginare la vostra vita senza l’altro, non riuscite a pensare di potervi innamorare di nuovo in quel modo.
Ogni volta che pensate a tutto questo – essendosi emotivo e mentale coalizzati – il plesso solare vi fa ancora più male, cioè soffrite ancora di più.

È bene sia chiaro che tutti questi dialoghi interni fanno parte di un’attività totalmente MECCANICA, ossia, non voluta da VOI.
Come si esce da questa situazione? Sarò sincero: se non siete abituati a lavorare su voi stessi attraverso l’osservazione distaccata di emotivo e mentale... sono tutti cazzi vostri!!!

Restate per ore, per giorni, a volte per mesi... imbambolati, con la mente che pensa a ricordi e anticipazioni in maniera compulsiva, immersa nel dialogo interno, costringendovi a provare frustrazione, sconforto, a volte grande rabbia o addirittura odio verso l’azienda, il partner o il mondo stesso. La consapevolezza di sé scende ai minimi livelli e voi restate prigionieri delle paure dei vostri involucri animali.
E potete solo aspettare che passi.

Chi ha già maturato una certa esperienza nel lavoro su di sé, ha qualche possibilità in più. Ma sarò ancora più sincero: non basta “una certa esperienza”, dovete aver raggiunto un preciso grado iniziatico che consiste nella capacità di osservare il corpo emotivo e tenerlo a bada. In questo stato, anche se l’immaginazione negativa della mente è ancora attiva (ma quando l’emotivo non è coinvolto, lo è già molto meno), la sofferenza emotiva non si mette più in moto. Siete dunque riusciti a operare il distacco fra kama e manas, siete liberi dalle tempeste emotive, le quali vi impediscono di agire con il Cuore in uno stato di lucidità interiore.

Disidentificarsi da mente ed emozioni significa smettere di dare importanza a ciò che la mente pensa e ciò che il corpo emotivo prova. Per esempio, voi siete convinti che dalla mente possano giungere le soluzioni ai problemi che si creano sul lavoro o nella coppia, pertanto, da questa prospettiva, se fate tacere la mente avete meno possibilità di risolvere i vostri problemi. Pensando in questo modo non troverete mai la giusta Volontà per osservare la mente da fuori! Se pensate di perdere qualcosa di prezioso... non ve ne distaccherete mai. Invece proprio quando vi distaccate dai pensieri della mente e iniziate a osservarli da fuori, arrivano le soluzioni più illuminanti ai vostri problemi!

Questa è addirittura la fase più importante, perché nel momento in cui possedete la certezza che i ricordi e le anticipazioni prodotti dalla vostra mente sono solo secrezioni prive di utilità pratica che niente aggiungono alla comprensione della situazione, il distacco diventa unicamente una questione di tempo.
Il dolore emotivo, per quanto forte, viene ridimensionato e ricondotto entro i suoi confini naturali: è solo il dolore di un corpo, senza una sofferenza psicologica collegata, come quando vi pestate un dito col martello.

Il dolore è però un Piombo prezioso, per questo motivo non va mai rifiutato, ma semplicemente osservato in stato di Presenza. La rabbia, il desiderio di vendetta, il senso di abbandono, il senso di impotenza, la paura... ognuna di queste emozioni può essere utilizzata per entrare ancora più profondamente nella Presenza e quindi nella non-mente. Ognuna di queste emozioni può essere un trampolino di lancio verso la Libertà definitiva: proprio quando state soffrendo di più siete più vicini alla Presenza, ma dovete cavalcare l’onda, non farvi sommergere.

Riassumendo. Prima vi sforzate di restare PRESENTI e osservare le vostre reazioni emotive e i conseguenti pensieri negativi. Man mano che l’emotivo si tranquillizza vi concentrate maggiormente sui pensieri stessi. L’osservazione continua fa sì che nel grado iniziatico successivo siate in uno stato di PRESENZA e osservazione così puri che i pensieri vanno e vengono senza toccarvi... fino a quando non si producono nemmeno più. Questo è lo stato di non-mente, che all’inizio va e viene, ma col tempo diventa stabile.

La non-mente è il Rifugio dell’anima, una porta verso l’Amore privo di condizioni. È pace con se stessi e con gli altri. Un senso di totale rilassamento, ma anche viva Presenza. Un senso di ESSERCI esaltato all’ennesima potenza, ma anche Compassione per le afflizioni del mondo, un Cuore bruciante di passione per la Vita.

La vostra capacità di restare PRESENTI in stato di osservazione dell’attività emotiva/mentale, decide se alla prossima occasione soffrirete solo per qualche ora o per qualche mese.
Buon Lavoro.


- Salvatore Brizzi -

http://www.salvatorebrizzi.com/2010/06/lo-stato-di-non-mente.html


martedì 7 settembre 2010

Dal profondo dell'anima

Documentario di Werner Weick su Carl Gustav Jung




- Dio è una sfera infinita, o un circolo, il cui centro è dovunque, e la circonferenza in nessun luogo -



mercoledì 1 settembre 2010

La vita è un fiume che scorre


Non so se, nel corso delle vostre passeggiate, avete notato uno stagno lungo e stretto accanto al fiume. Deve essere stato scavato dai pescatori e non è collegato al fiume. Mentre quest’ultimo scorre incessantemente, largo e profondo, lo stagno è torbido, perché non è collegato alla vita del fiume e non contiene pesci. Le sue acque sono ferme, mentre il fiume, che scorre rapido, lì accanto, è pieno di vita e di movimento.

Non pensate che gli esseri umani siano anch’essi così? Si scavano una piccola pozza separata dalla corrente rapida della vita e in quella piccola pozza ristagnano e muoiono; ma, è proprio quella stagnazione, quel declino, che chiamiamo esistenza. In altri termini, noi tutti desideriamo uno stato di permanenza; vogliamo che certi desideri durino per sempre, vogliamo che i piaceri non abbiano mai fine. Scaviamo una piccola tana e ci barrichiamo dentro con le nostre famiglie, ambizioni, culture, paure, divinità, forme di culto, e lì moriamo, lasciando che la vita ci scorra accanto – quella vita che è impermanente, in perenne mutamento, che è così rapida, ha insondabili profondità, un’eccezionale vitalità e bellezza.

Avete notato che, se sedete in silenzio sulla riva del fiume, ne udite il canto – lo sciabordio dell’acqua, il rumore della corrente? C’è sempre un senso di movimento, uno straordinario movimento verso ciò che è più ampio e più profondo.

Ma, nella piccola pozza non c’è alcun movimento, la sua acqua è stagnante. E se osservate, vedrete che è questo che la maggior parte di noi desidera: piccole pozze stagnanti di esistenza lontano dalla vita. Affermiamo che questa nostra esistenza stagnante è giusta e abbiamo inventato una filosofia per giustificarla; abbiamo sviluppato teorie sociali, politiche, economiche e religiose in suo sostegno e non vogliamo essere disturbati perché, in definitiva, siamo alla ricerca di un senso di permanenza.

Sapete cosa significa ricercare la permanenza? Significa volere che le cose piacevoli durino indefinitamente e che quelle spiacevoli cessino al più presto. Vogliamo che il nome che portiamo sia conosciuto e tramandato attraverso la famiglia e la proprietà. Vogliamo un senso di permanenza nei rapporti, nelle attività, il che vuol dire che cerchiamo una vita durevole e continua nella nostra pozza stagnante; non desideriamo alcun vero cambiamento, così abbiamo edificato una società che ci garantisce la permanenza di proprietà, nome e fama.

Ma, vedete, la vita non è affatto così; la vita non è permanente. Come le foglie che cadono da un albero, tutte le cose sono impermanenti, niente dura; il cambiamento e la morte sono inevitabili. Avete mai notato quanto è bello un albero spoglio che si staglia contro il cielo? Tutti i rami sono perfettamente delineati, e nella sua nudità c’è una poesia, un canto. Tutte le foglie sono cadute ed esso attende la primavera. Quando questa arriva, riempie nuovamente l’albero della musica di molte foglie, che a tempo debito cadono e vengono spazzate via dal vento; e questo è il cammino della vita.

Ma, noi, non vogliamo niente del genere. Ci aggrappiamo ai nostri figli, alle tradizioni, alla società, al nome che portiamo, alle nostre piccole virtù, perché desideriamo la permanenza; ecco perché abbiamo paura di morire. Abbiamo paura di perdere le cose che conosciamo. Ma, la vita non è quella che vorremmo; la vita non è affatto permanente. Gli uccelli muoiono, la neve si scioglie, gli alberi vengono tagliati o abbattuti dalle tempeste, e così via.

Noi, però, vogliamo che tutto ciò che ci dà soddisfazione sia permanente; vogliamo che la nostra posizione sociale e l’autorità che abbiamo sulle persone durino. Ci rifiutiamo di accettare la vita così com’è veramente.

Il fatto è che la vita è come un fiume: procede incessantemente, sempre intenta a cercare, esplorare, spingere, traboccare, penetrare ogni fessura con la propria acqua. Ma, vedete, la mente non consentirà che le accada questo. La mente capisce che è pericoloso vivere in uno stato di impermanenza, di insicurezza, e così si costruisce un muro attorno: il muro della tradizione, della religione organizzata, delle teorie politiche e sociali. La famiglia, il nome, la proprietà, le piccole virtù che abbiamo coltivato – sono tutti racchiusi dentro le mura, lontano dalla vita.

La vita è mobile, impermanente, e cerca incessantemente di infiltrare, di abbattere queste mura, dietro le quali c’è confusione e infelicità. Gli dei all’interno delle mura sono tutti falsi dei, e i loro scritti e le loro filosofie non hanno alcun significato, poiché la vita è al di là di essi.

Una mente che non abbia mura, che non sia gravata dal peso delle proprie acquisizioni, delle cose accumulate, della conoscenza, una mente che viva senza tempo, senza sicurezza – per una mente simile, la vita è una cosa straordinaria. Una mente così è la vita stessa, perché la vita non conosce rifugio. Ma la maggior parte di noi desidera un rifugio: una casetta, un nome, una posizione, tutte cose che affermiamo essere molto importanti. Chiediamo permanenza e creiamo una cultura fondata su tale bisogno, inventando dei che non sono affatto dei, ma semplici proiezioni dei nostri stessi desideri.

Una mente che ricerchi la permanenza è presto destinata a ristagnare; rapidamente si riempie di corruzione e di decadenza, proprio come lo stagno lungo il fiume. Solo la mente che non ha mura, né punti fermi, né barriere o rifugi, che si muove all’unisono con la vita, spingendosi sempre avanti, incurante del tempo, esplorando, esplodendo – solo una mente simile può essere felice, eternamente nuova, poiché è intrinsecamente creativa.

Capite di cosa sto parlando? Dovreste capire, perché tutto ciò fa parte di una vera educazione: se ne afferrate il significato, l’intera vostra vita sarà trasformata, e il vostro rapporto con il mondo, con il prossimo, con vostro marito o vostra moglie, assumeranno un significato totalmente differente. Allora non cercherete più di realizzarvi attraverso qualcosa, rendendovi conto che la ricerca dell’autorealizzazione porta solo dolore e infelicità. Ecco perché dovreste chiedere tutto questo ai vostri insegnanti e discuterne fra di voi. Se lo comprendete, avrete cominciato a comprendere la straordinaria verità di ciò che è la vita, e in quella comprensione c’è grande bellezza e amore, il fiorire della bontà. Ma gli sforzi di una mente che ricerca una pozza di sicurezza, di permanenza, possono solo portare all’oscurità e alla corruzione. Una volta installatasi nella pozza, una mente simile ha paura di avventurarsi fuori, di cercare, di esplorare; ma la verità, Dio, la realtà o quel che preferite, si trovano oltre la pozza.

Sapete che cos’è la religione? Non è nelle preghiere salmodiate, né nel compimento di un rito, né nell’adorazione di dei di latta, o immagini di pietra, non è nei templi e nelle chiese, né nella lettura della Bibbia, o della Bhagavadgita, non consiste nel ripetere un nome sacro, o nel seguire qualche altra superstizione inventata dagli uomini. Nulla di tutto ciò è religione.

La religione è il sentimento di bontà, quell’amore che è simile a un fiume, vivo, eternamente in movimento. In quello stato scoprirete che arriva un momento in cui ogni ricerca cessa del tutto; e la fine della ricerca è l’inizio di qualcosa di totalmente differente. La ricerca di Dio, della verità, il sentirsi completamente buoni – non il coltivare la bontà e l’umiltà, ma il cercare qualcosa al di là delle invenzioni e dei trucchi della mente, il che significa sentire quel qualcosa, vivere in esso, esserlo – quella è la vera religione.

Ma ciò è possibile solo se lasciate la pozza che vi siete scavati e vi gettate nel fiume della vita. Allora la vita vi stupirà prendendosi cura di voi, poiché voi non ve ne prenderete più cura. La vita vi porterà dove vorrà, poiché ne siete parte; non vi sarà alcun problema di sicurezza, di ciò che la gente dice o non dice: e questa è la bellezza della vita.



- da "La ricerca della felicità" di Jiddu Krishnamurti -


http://www.pomodorozen.com/zen/la-ricerca-della-felicita-krishnamurti/


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