venerdì 24 dicembre 2010

Il sole è nuovo ogni giorno



“La giovinezza è una qualità dell’essere”

Questa è una delle massime più profonde di Eraclito.

Il sole è nuovo ogni giorno. La fame è nuova ogni giorno. L’amore è nuovo ogni giorno. La vita è nuova ogni giorno.

Dire “ogni giorno” non è esatto: ogni movimento, ogni gesto, ogni momento, ogni cosa è nuova. Da dove viene allora il vecchio? Perché ti annoi? Se ogni cosa è nuova e non puoi entrare nello stesso fiume, e se non puoi rivedere la stessa alba; se ogni cosa è così nuova e fresca, perché dunque ti annoi e muori? Perché non vivi in funzione dell’armonia interiore. Vivi in funzione della mente. La mente è vecchia.

Ogni sole è nuovo, ogni mattino è nuovo, ogni fame è nuova, ogni sazietà: ma la mente è vecchia.

La mente coincide col passato, la mente è memoria accumulata. E se guardi attraverso la mente, questa porta con sé vecchiaia e morte per tutte le cose: ogni cosa sembra polverosa, sporca, tutto a causa della mente. Metti da parte la mente, metti da parte i ricordi! Se riesci a mettere da parte i ricordi, tua moglie è nuova ogni giorno, perché è solo a causa dei ricordi che tu pensi di aver vissuto con questa donna trent’anni e di conoscerla bene. Chi può conoscere mai nulla. Rimaniamo estranei, eternamente estranei.

Come puoi conoscere una persona? Si può conoscere una cosa, non una persona, perché una cosa può essere esaurita. Come puoi conoscere una persona? Una persona è libertà. Cambia in ogni momento. Se non puoi entrare due volte nello stesso fiume, come puoi incontrare di nuovo la stessa persona? Se persino i fiumi sono così mutevoli... la consapevolezza, il fiume della consapevolezza non può essere vecchio. Se metti da parte la mente, se non guardi con gli occhi vecchi, tua moglie è nuova, ogni gesto è nuovo. In questo caso esiste una costante, una continua eccitazione nella tua vita, una continua vivacità.

Oggi avrai fame, è nuova. E oggi, quando mangi, questo cibo è nuovo, perché nulla può essere vecchio nell’esistenza. L’esistenza non ha passato. Il passato fa parte della mente. L’esistenza è sempre nel presente, nuova, fresca, sempre in movimento, una forza dinamica, un movimento dialettico, scorre come un fiume. Se avrai questa intuizione, non sarai mai annoiato. E la noia è la malattia più grave: uccide in profondità, è un lento avvelenamento. A poco a poco sei così annoiato che diventi un peso morto che grava su te stesso. Allora la poesia della vita scompare. A questo punto non fioriscono i fiori e non cantano gli uccelli. A questo punto sei già sepolto, sei già nella tomba.

Si dice che la gente muore a trent’anni e sia sepolta verso i settanta. Anche trent’anni sembrano troppi, questo proverbio deve risalire ai tempi antichi... ora non è così: ora la gente muore a vent’anni circa. Anche questa età pare troppo remota. Molti giovani, giovanissimi, di diciott’anni, venti, vengono a dirmi: “Siamo annoiati”. Sono già invecchiati. Li avete istruiti, avete già condizionato la loro mente. Stanno già morendo. Muoiono ancor prima di essere giovani.

Ricorda, la giovinezza è una qualità dell’essere. Se sei in grado di guardare il mondo senza mente, resterai giovane per sempre. Anche nella morte sarai giovane, emozionato, proprio perché la morte si sta avvicinando; sei eccitatissimo: una grande avventura, un culmine, una porta si apre ora sull’infinito.

Mai nulla è uguale a se stesso. Ogni cosa continua a cambiare. Solo la mente è vecchia e morta. Essere capaci di guardare la vita senza mente, questo è meditazione.



- da “L’armonia nascosta, discorsi sui frammenti di Eraclito” di Osho -


http://www.pomodorozen.com/zen/il-sole-e-nuovo-ogni-giorno/


giovedì 9 dicembre 2010

Il cuore a due cilindri




Colui che non sente la musica
pensa che chi danza sia matto.


Jalaluddin Rumi, maestro Sufi


Questo è un libro sull’amore. Anche se dalla copertina potrebbe non sembrarlo affatto, in realtà lo è.
Probabilmente adesso qualcuno inizierà ad avere dei dubbi o magari incomincerà a sfogliare freneticamente i capitoli. Forse potremmo anche giocarci qualche lettore non troppo motivato.
Non ce ne frega assolutamente niente.
L’amore di cui si parla è di una categoria particolare: quello verso le motociclette. Tuttavia, descriverlo così risulta ingiustamente riduttivo, visto che innamorarsi di un oggetto meccanico, non è di norma cosa da persone intelligenti.
Forse la definizione migliore è l’amore verso ciò che le motociclette rappresentano, o ancora meglio, verso ciò che una motocicletta può far provare a ognuno di noi.
La moto che mi ha spinto a scrivere questo libro è la mia Harley-Davidson, ma niente paura: vi assicuro che qui non troverete le solite cazzate sulle highway americane, il vento sulla faccia e robe simili.
No, perché l’amore a cui faccio riferimento è un sentimento molto più complesso, qualcosa che si nasconde negli angoli più profondi e sconosciuti della nostra anima.
Un’emozione che va ben oltre la marca e il motore della nostra moto, ma piuttosto una sensazione che stava annidata lì, ben prima che qualcosa ci spingesse a diventare un motociclista, o per lo meno a provarci.
Un sentimento strano e sovversivo, sempre pronto a saltar fuori e a prenderci per la gola, facendolo quasi sempre nel momento meno opportuno.
Non tutti hanno la fortuna di averlo, non tutti hanno la capacità di controllarlo, ma questo in realtà non è un problema.
Fino a quando l’avrà vinta sulla nostra mente e su quello che siamo diventati, facendoci galoppare anche solo per un istante negli spazi luminosi dei nostri sogni, beh, ragazzi, allora saremo ancora in tempo.





E all’improvviso l’ho vista. Era lì per me, mandata dal dio dei biker per fare nuovi proseliti: e il prescelto, quel giorno, ero io.
Né il mio cervello né il mio conto in banca erano pronti per quell’esperienza. L’unico che sembrava sapere già tutto era il cuore.
E il tempo era arrivato.


Insomma, arriva un certo momento della propria vita in cui ci si compra una Harley-Davidson.
In realtà, il processo che ci porta a questa bizzarra conclusione è tutt’altro che naturale.
Per esempio, alcuni se la comprano perché sentono che nel loro parco macchine manca un oggetto che sia l’equivalente a due ruote di una Porsche Cayenne.
Altri lo fanno perché sono convinti che le Harley-Davidson possano essere un utilissimo modo di aumentare le proprie quotazioni con le ragazze, altri ancora sono stregati da un colpo di fulmine a due cilindri, che di solito dura lo spazio di una stagione.
In effetti non sono molti quelli che arrivano a possedere una Harley seguendo una naturale evoluzione, passando cioè attraverso una lunga serie di moto che li fanno maturare portandoli verso the real thing.
Ma tutto ciò non ha alcuna importanza; ciò che conta davvero è che, a partire da un certo giorno della vostra vita, inspiegabilmente iniziate a pensare più o meno ossessivamente a una Harley-Davidson.
Quest’oscura e impellente concupiscenza motociclistica capita soprattutto con le Harley-Davidson e la ragione, ancora oggi ignota a tutti, va cercata nelle misteriose alchimie dell’innamoramento piuttosto che nelle fredde valutazioni di marketing o nelle più razionali logiche tecniche.
E non potrebbe che essere così, visto che le Harley sono moto che logicamente nessuno si comprerebbe mai. Innanzi tutto costano molto più delle loro pari, di solito hanno prestazioni inferiori, sono certamente più pesanti, portano immediatamente a ebollizione i polpacci della vostra fidanzata e consumano una cifra.
Non avventuriamoci per ora nell’insidioso universo dei pezzi di ricambio e delle officine autorizzate, ma indugiamo ancora per un po’ nel meraviglioso pianeta dell’innamoramento. Credo che non ci siano altri modi per giustificare l’impressionante impennata di vendite di queste motociclette in Italia e in tutto il mondo: il colpo di fulmine, signori, null’altro.
La potete incrociare ferma a un semaforo o vederne una bella foto su “Freeway Magazine” o “Low Ride”. Magari ne individuate una che parcheggia sempre al solito posto sotto casa vostra o vicino al vostro ufficio e poco alla volta vi scoprite a cercarla ogni mattina. Quello è il momento in cui il seme ha trovato un nido nel vostro cuore (ribadisco: nel cuore, non nella vostra mente) e inizia a germogliare.
Iniziate così a immaginarvi a cavallo della vostra nuova Harley-Davidson nei luoghi più disparati; mentre raggiungete la Liguria attraverso la tortuosa autostrada di Serravalle o mentre attaccate i primi tornanti del vostro passo di montagna preferito o anche solo mentre la parcheggiate nel garage e vi fermate a osservarla mentre si raffredda.
Ma ormai non avete più scampo.
Immaginarvela nel garage è di solito l’immagine più seducente, forse perché l’innamoramento significa innanzi tutto possesso; è come lo struggente desiderio di possedere una ragazza, di poterla considerare la vostra ragazza. Ed è allora che iniziate a sognarvi di telefonarle e di trovarla disponibile, di passarla a prendere e trovarla lì ad aspettarvi sotto il portone. Quando inizierete a immaginare la vostra nuova Harley-Davidson che vi aspetta silenziosa nella penombra del vostro garage, la vostra anima sarà perduta per sempre e la vostra mente non avrà più alcun potere su di lei.
Quindi partiamo dal presupposto che ormai non potete più fare a meno di una moto americana, più precisamente di una con due cilindri e un marchio le cui iniziali sono H e D: da questo momento, come ogni innamoramento, per voi iniziano anche i problemi.
Un vecchio saggio disse: “If it has tits or wheels, then you’ve got a problem” (se ha tette o ruote, avrai sempre problemi!).
E i problemi arrivano già prima di comprarla: il primo dei quali potrebbe essere quello che non possedete il garage del sogno, o più probabilmente non avete i soldi necessari né per acquistare la moto né per prendervi anche il garage (il cui costo è comunque dello stesso ordine di grandezza). Talvolta è possibile che non abbiate neppure la minima idea di come si guida una motocicletta.
Tuttavia al vostro cuore, ormai completamente preda del sogno, non potrebbe fregare di meno di tutte le obiezioni che sia la vostra mente che vostra moglie cercano di sottoporvi.
È inutile, il colpo di fulmine non si arresta davanti a nulla: le giustificazioni e le vie di uscita nasceranno immediatamente, con soluzioni irrealizzabili che al momento vi sembreranno geniali: sloggiare la Citroën Saxo di vostra moglie dal garage, rinunciare alle vacanze estive con la vostra fidanzata per sette anni di seguito, vendere il vostro Jack Russel Terrier per un nuovo paio di silenziatori Screamin’ Eagle.
Ogni problema troverà immediatamente una “brillante” soluzione che consentirà al vostro sogno di potersi finalmente realizzare. Forse.





La mia medicina per quando la banca, i capi e i francesi superavano il mio livello di sopportazione era un viaggio con i miei amici.
In verità anche l’equilibrio con Giovanna si armonizzava miracolosamente dal momento in cui le ruote della mia moto incominciavano a rotolare su qualche vecchia statale abbandonata.
Era la sensazione impagabile di poter controllare anche la mia vita, oltre alla moto, e di poterle imprimere la direzione che volevo, con un colpo d’anca.
Il problema non stava nella mia vita di tutti i giorni, nella mia famiglia, o nel lavoro. Non era la voglia di fuggire il mio presente, ma sapevo che nel profondo la mia anima custodiva una scheggia fatta di rock’n’roll e di curve in terza piena che a volte reclamavano la mia presenza per un po’. La moto è il mio personale di affrontare le cose, e non necessariamente il meno faticoso.
Se si sceglie la moto per le proprie esigenze, non si è per forza motociclisti: si sta identificando il mezzo di trasporto più idoneo. Che è diverso. Ecco perché proliferano gli scooteristi, i caschi integrali multifunzione, il BMW C-1 o addirittura le moto a tre ruote.
Per me andare in moto equivale a essere un motociclista, quindi è qualcosa di più. Non uso la moto perché c’è traffico o perché c’è un bel sole, né tanto meno per “fuggire dalla vita di tutti i giorni”: palle.
La moto per me è uno stato mentale: la consapevolezza del fatto che qualsiasi cosa stia facendo, io resto un motociclista. C’è sempre un angolo del mio cervello impercettibilmente sintonizzato su quel mezzo a due ruote. Penso alle modifiche da apportare, ai prossimi viaggi, alle ultime sensazioni provate in sella.
E aggiungo che non amo “le moto” in generale: amo la mia moto, quella che ho scelto e che m’identifica perfettamente, che mi fa sentire completo.
È robusta anche se non va fortissimo, è affidabile e generosa, ha una storia e grandi significati legati al passato. Ha un’estetica originale, perché l’ho trasformata piano piano. È unica.
A volte mi fermo a pensare cosa ci sto a fare in moto con una Belstaff anni Settanta e un vecchio casco jet sotto la pioggia, o all’Elefantentreffen, o a 40 gradi sotto il sole africano e ho la vaga impressione che io stia facendo una cazzata; ma nello stesso tempo mi sento più vivo, totalmente padrone delle mie decisioni e della mia libertà, in totale controllo delle mie scelte.
E sono felice, perché sento che sto vivendo esattamente quello che ho deciso di vivere e nel modo che volevo.
È una sensazione esclusiva e privata, la stessa che unisce i motociclisti mentre s’incrociano e si salutano su qualche oscuro tornante, magari verso una meta che ha un senso solo perché l’hai scelta tu come punto di arrivo.
E la consapevolezza che tutti e due, per quell’attimo, stanno provando gli stessi sentimenti.





I viaggi in moto hanno la caratteristica zen
che sei solo con te stesso.




– da “Il cuore a due cilindri. Viaggi e riflessioni di un motociclista innamorato della sua Harley-Davidson” di Roberto Parodi



domenica 5 dicembre 2010

Il re del mondo




Il re del mondo - Franco Battiato


Strano come il rombo degli aerei da caccia un tempo
stonasse con il ritmo delle piante al sole sui balconi...
e poi silenzio... e poi lontano il tuono dei cannoni a freddo...
e dalle radio dei segnali in codice.
Un giorno in cielo fuochi di bengala...
la pace ritornò
ma il Re del Mondo
ci tiene prigioniero il Cuore.
Nei vestiti bianchi a ruota echi delle danze sufi...
Nelle metro giapponesi oggi macchine di ossigeno.
Più diventa tutto inutile e più credi che sia vero
e il giorno della fine non ti servirà l'inglese.
E sulle biciclette verso casa
la vita ci sfiorò
ma il Re del Mondo
ci tiene prigioniero il Cuore.


venerdì 26 novembre 2010

Ho incontrato l'anima in cammino sul mio sentiero



E un uomo disse: Parlaci della Conoscenza.
E lui rispose dicendo:
Il vostro cuore conosce nel silenzio i segreti dei giorni e delle notti.
Ma il vostro orecchio è assetato dal rumore di quanto il cuore conosce.
Vorreste esprimere ciò che avete sempre pensato.
Vorreste toccare con mano il corpo nudo dei vostri sogni.

Ed è bene che sappiate:
La fonte nascosta della vostra anima dovrà necessariamente effondersi e fluire mormorando verso il mare;
E il tesoro della vostra infinita profondità si mostrerà ai vostri occhi;
Ma non con la bilancia valuterete questo sconosciuto tesoro;
E non scandaglierete con asta o sonda le profondità della vostra conoscenza.
Poiché l'essere è un mare sconfinato e incommensurabile.

Non dite: "Ho trovato la verità", ma piuttosto, "Ho trovato una verità".
Non dite: "Ho trovato il sentiero dell'anima", ma piuttosto, "Ho incontrato l'anima in cammino sul mio sentiero".
Poiché l'anima cammina su tutti i sentieri.
L'anima non procede in linea retta, e neppure cresce come una canna.
L'anima si schiude, come un fiore di loto dagli innumerevoli petali.


- da "Il Profeta" di Khalil Gibran -


lunedì 22 novembre 2010

L'esistenza ha bisogno di te

I Tarocchi Zen di Osho
1. L'Esistenza


Non esisti in quanto frutto del caso. L'esistenza ha bisogno di te. Senza di te nell'esistenza mancherebbe qualcosa e niente potrebbe prendere il suo posto. Ciò ti dà dignità - il fatto che l'intera esistenza sentirà la tua mancanza. Le stelle e il sole e la luna, gli alberi e gli uccelli e la terra - ogni cosa, nell'intero universo, sentirà che un angolino è vuoto, e nessuno lo può colmare, fatta eccezione per te. Questo ti dà una gioia immensa, un appagamento, poiché senti di essere in relazione con l'esistenza, ed essa si prende cura di te. Allorché sarai limpido e pulito, vedrai riversarsi in te da tutte le dimensioni un amore sconfinato.

Osho God is Dead: Now Zen is the Only Living Truth Capitolo1


Commento:

La figura nuda siede sulla foglia di loto della perfezione e osserva la bellezza del cielo stellato. Sa che "la casa" non è un luogo fisico del mondo esterno, ma una qualità interiore di rilassamento e accettazione. Le stelle, le pietre, gli alberi, i fiori, i pesci e gli uccelli sono tutti nostri fratelli e sorelle nella danza della vita. Noi esseri umani tendiamo a dimenticarlo, poiché inseguiamo i nostri scopi personali e privati, e crediamo di dover lottare per ottenere ciò di cui abbiamo bisogno. Ma in ultima analisi il nostro senso di separatezza è solo un'illusione fabbricata dalle piccole preoccupazioni della mente. Ora è tempo di guardare se permetti a te stesso di ricevere lo straordinario dono di sentirti "a casa", ovunque ti trovi. Se lo fai, assicurati di concederti tempo per assaporarlo, in modo che possa sedimentare in te ancor più profondamente e accompagnarti sempre. Se invece hai la sensazione che il mondo esiste per sopraffarti, è tempo di fare una pausa. Questa notte esci, e guarda le stelle.


lunedì 15 novembre 2010

Attimi di eternità



di Francesco Lamendola


Esiste una distorsione culturale secondo la quale, per avere una visione spirituale della vita, bisognerebbe ostentare il massimo disprezzo nei confronti del corpo e, più in generale, per la dimensione emozionale legata alla sfera del sensibile.
Niente di più falso.

La visione spirituale della vita non passa attraverso il misconoscimento del corpo e della sensibilità fisica: pensare una cosa del genere, significa pensare da eunuchi; al contrario, essa passa attraverso la celebrazione del corpo ed il pieno riconoscimento della sensibilità, per oltrepassare la dimensione fisica e spiccare il volo verso più ampi orizzonti.

Chi non ha mai provato un sentimento di profonda ammirazione davanti al corpo; chi non ha mai fatto, neppure una volta nella vita, l’esperienza di sciogliersi nella pura gioia dell’estasi fisica, non possiede i requisiti per capire cosa sia realmente la spiritualità: poiché quest’ultima non è la negazione, ma la piena realizzazione, la sublimazione e l’oltrepassamento della bellezza della dimensione fisica ed emozionale.

Un uomo che non si sia mai sentito dissolvere, neppure una volta, nella dolcezza dell’abbraccio di una donna, fino a non capire più dove finisce il proprio corpo e dove incomincia quello di lei; una donna che non abbia provato la medesima esperienza tra le braccia di un uomo, non sono delle persone complete: a meno che esse abbiano saputo giungere direttamente alla bellezza dell’Essere, cosa che è concessa, come uno speciale privilegio, alle anime mistiche.

In ogni caso, nessun calunniatore del corpo ha mai posseduto gli strumenti adeguati per spiccare il volo verso le regioni superiori dell’anima; perché, senza bisogno di scomodare l’Eros platonico, è intuitivo che chi non sa vedere la bellezza del corpo, non è neppure degno di apprezzare quella dell’anima.

Infatti, la bellezza del corpo e quella dell’anima non sono due cose diverse e contrapposte: sono due facce di una stessa medaglia. È vero, comunque, che il corpo non si accende di luce propria, che la sua luminosità non è autosufficiente; che sempre esso riceve la sua bellezza dall’alto, cioè dall’anima, e non avviene mai il contrario.

Ciò detto, tuttavia, non bisogna pensare che il corpo sia una sorta di errore del piano divino o uno scherzo esistenziale; e, anche se la sua reale consistenza ontologica è illusoria - così come lo è quella di ogni altro ente materiale -, fino a che noi viviamo nella presente dimensione, non possiamo separarci o emanciparci da esso, ma dobbiamo, al contrario, integrarlo nello splendore dell’anima, farlo tutt’uno con essa.

Per cui la giusta domanda che ci dovremmo porre non è se la nostra anima possa fare a meno del corpo, ma, piuttosto, se possediamo un’anima abbastanza grande, abbastanza luminosa, da abbracciare il corpo, da trasfigurarlo, da illuminarlo, da spiritualizzarlo. Oppure la nostra anima è così piccola e meschina che non riuscirà mai a glorificare il corpo, per quante cure materiali noi prodighiamo a quest’ultimo, come si farebbe con un bambino viziato?

Noi non siamo cartesiani, grazie al Cielo; non siamo dualisti, non crediamo che si possa separare la “res cogitans” dalla “res extensa”. Crediamo e siamo profondamente convinti che non vi sia cosa più sublime e più nobile della fusione tra la dimensione corporea e la dimensione spirituale, quando due anime si incontrano fino a compenetrarsi anche nel corpo; quando due corpi si compenetrano fino a far scaturire l’anima, purificata e glorificata.

Nessuno ha il diritto di aggrottare le ciglia, di fare il moralista, di impancarsi a “uomo superiore” quando si parla di una delle più alte e preziose esperienze che siano concesse alle creature umane: quella di abbandonarsi pienamente, felicemente, incondizionatamente, l’una nelle braccia di un'altra, ritrovando - al tempo stesso - la propria parte più vera e trascurata.

Al fondo dell’anima umana, vi è un riflesso dell’anima cosmica e una scintilla dell’anima divina: e, se le potenze dell’estasi sensoriale sono capaci di ridestarne la consapevolezza, dischiudendo uno spiraglio d’infinito, allora vuol dire che la bellezza e la gioia del corpo sono anch’esse una delle nobili vie che conducono alla liberazione dell’anima.

Ciò non significa che automaticamente, sempre e comunque, l’incontro di due corpi si traduca nell’incontro e nella liberazione reciproca di due anime. Se le anime sono sufficientemente evolute, ciò può aver luogo. Ma può anche accadere che esse si trovino su due livelli evolutivi diversi; oppure che, pur trovandosi al di sopra del livello più basso ed egoistico, non siano ancora capaci di far scaturire quella melodia divina che si diffonde quando l’anima abbandona interamente i propri istinti di aggressione e di difesa, per lasciarsi andare alla gioia dell’incontro.

Per incominciare a vedere la luce, non basta avere lo sguardo limpido: bisogna anche che esso sia allenato; per godere il privilegio della fusione con l’altro, non basta possedere una retta coscienza e una disponibilità all’apertura spirituale: bisogna anche spogliarsi della paura e dell’istinto di conservazione, che tenderebbero a tenerci rinchiusi in noi stessi, diffidenti nei confronti di chiunque possa mettere in crisi i nostri equilibri faticosamente conquistati.

Potremmo definire l’essere umano come una creatura che vive, paradossalmente, nella terra di nessuno fra questi due istinti contrastanti: la sete di assoluto e l’istinto di conservazione. La prima lo spinge più oltre e più in alto; il secondo lo trattiene e lo richiama indietro, quand’egli si spinge avanti. La prima discende dalla sua parte celeste, il secondo è figlio della sua parte terrestre; la prima è essenziale alla realizzazione della sua vocazione divina, la seconda è necessaria alla sua preservazione nella sfera del finito.

L’uomo è un viandante in cammino, conteso da spinte contrastanti; ma non è lo zimbello di un destino incomprensibile, né il trastullo di dèi capricciosi. Entrambe le spinte svolgono una degna funzione, ciascuna nel proprio ambito; il male non è che esse mirino a obiettivi discordanti, bensì che l’uomo non le sappia leggere e riconoscere per la funzione che svolgono, evitando di porle in un ambito ed in una prospettiva che non competono loro.

Un essere umano che si lasciasse guidare unicamente dal richiamo dell’assoluto, si perderebbe in quanto individuo sociale e, probabilmente, finirebbe per consumarsi in quanto creatura di carne: come la falena che, volando troppo vicino al fuoco, prima o poi si brucia le ali. D’altra parte, un essere umano che si lasciasse guidare unicamente dall’istinto di conservazione, finirebbe per vivere come i bruti, contentandosi di soddisfare le necessità primarie e aggirandosi per le strade della vita come un ottuso cacciatore di piaceri.

La nostra nobiltà risiede nella sete di assoluto; ma, nella nostra presente condizione di esistenza, non possiamo perseguirla incondizionatamente, altrimenti finiremmo per disumanizzarci: della nostra umanità, infatti, sono parte anche le contingenze legate al corpo, ai sensi, alla bellezza della dimensione fisica. Il mistico che non sappia più gioire del sorriso di un altro essere umano, della luce che si accende al mattino sui monti, del rigoglio di un giardino in primavera, ha smarrito la sua profonda umanità in cambio di una velleitaria pretesa di autodeificazione.

Sì, in noi vi è una scintilla divina; ma questo non significa che noi siamo già pronti, qui e ora, per diventare delle creature incorporee, fatte di pura luce; né bisogna intendere questa condizione anfibia in senso puramente negativo, come un non poter essere quel che si dovrebbe essere. No, l’uomo è quella creatura che deve armonizzare in se stessa il richiamo delle altezze e la pienezza del poggiare i piedi al suolo, gioiosamente e senza riserve.

Il santo che prova orrore della propria dimensione fisica è un fanatico che ignora la vera natura dell’uomo; l’edonista che insegue continuamente il piacere effimero è una creatura di fango, del pari ignorante quanto al senso della propria vita. La commovente bellezza della nostra condizione è proprio quella di trovarsi sospesa quassù, sul sentiero a fil di rasoio: aggrappata al solido fianco della montagna da un lato, ma, al tempo stesso, affacciata su una tale vastità di orizzonti, da mozzare il respiro.

Tale è il nostro destino, tale il nostro ineludibile richiamo.

Noi siamo chiamati ad operare in noi stessi una suprema operazione alchemica: realizzare il grande nel piccolo, ciò che sta in alto con ciò che sta in basso.

Ha scritto il filosofo Salvatore Veca nel libro «Questioni di vita e conversazioni filosofiche» (Milano, Rizzoli, 1991, pp. 132-33):

«Ora, la vita può essere letteralmente un viaggio ottuso o disperato nei territori dell’orrore, dell’odio, della crudeltà e della desolazione. Essa può anche generare esperienze di eccellenza, dignità, fioritura, felicità, amore, intensa dedizione a piccole e grandi cause. Difficilmente riuscirei a riconoscere vite umane se esse non prevedessero un impasto variabile, un composto chimico instabile di valore e disvalore. Come potremmo parlare di cose importanti e questioni di vita se non fosse così? Allo stesso modo, riconoscere il contrasto permanente che nasce dall’esercizio del doppio sguardo non equivale a accettare l’esito dell’assurdo o quello, simmetrico, della euforia. Essi possono essere esiti nobili e eroici tanto quanto vili, ottusi e gretti. A volte, queste caratteristiche contrastanti si mischiano in un impasto dai contorni e dalle tonalità incerte e formano figure ambigue.

Riconoscere il contrasto può anche voler dire riconoscere la più umana e più rispondente descrizione del tipo di esseri che ci è accaduto di essere o di essere divenuti, con tutta la nostra storia e biologia.»

L’estasi dell’incontro fra uomo e donna si inscrive in questa richiesta di senso, in questo sforzo per realizzare pienamente le potenzialità della natura umana e per spalancare una finestra di infinito nella nostra dimensione finita, concedendoci - per così dire - un piccolo anticipo di quell’altra dimensione che sperimenteremo, quando non saremo più legati al corpo fisico.

Ma, fino a tanto che esiste un legame del genere, sarebbe sbagliato e fuorviante, oltre che impossibile, volerlo reprimere, negare, cancellare. Perché siamo figli del Cielo, ma - non dobbiamo dimenticarlo - anche della Terra; e disconoscere la nostra seconda discendenza, sarebbe ingratitudine e follia.

Nell’abbandono che trasforma l’incontro con l’altro in una perfetta offerta di sé, si rende a se stessi il dono più grande: l’oblio della ragione strumentale e calcolante, la ritrovata libertà del libero fluire dell’essere, al di là e al di sopra del rovello della ragione che pretenderebbe di capire tutto, di spiegare tutto e perfino di dare un nome a tutto.

Vi sono delle cose che non sono esprimibili a parole, semplicemente perché non esistono concetti capaci di descriverle; eppure se ne può fare esperienza, lasciando che ci prendano per mano e ci conducano lungo i fiammeggianti sentieri dell’Essere. Malati di razionalismo, non siamo abbastanza umili per ammettere una verità tanto semplice, dopo tutto: che la nostra facoltà di sentire le cose supera di molto la nostra capacità di esprimerle mediante la logica.

Aveva ragione Shakespeare, dunque, allorché affermava che vi sono molte cose tra la terra e il cielo, che la nostra ragione non è neppure in grado di sognare; e aveva ragione anche Nietzsche, quando aggiungeva che esistono tante cose, che non sono state ancora dette e nemmeno pensate. C’è tutto un mondo, là fuori, ma anche qui, dentro di noi, del quale la nostra ragione non sospetta neanche l’esistenza; meno ancora potrebbe descriverlo e analizzarlo.

Gli attimi di eternità che si rivelano nell’abbandono del nostro Ego e nella fusione con un altro essere umano, sono una delle esperienze del sublime che la nostra coscienza può realizzare in se stessa, uscendo, al tempo stesso, fuori di sé; così come accade che, in essi, si realizza il paradosso dell’atemporale che si riflette nel temporale.

Non vi sono parole per dire una cosa del genere.

Ci si può solo fare piccoli e silenziosi, per ascoltare.

Il prodigio è questo: che le cose più profonde ci parlano, solo quando noi siamo capaci di accoglierle tacendo; tacendo e contemplando.

Allora, quando si creano le condizioni per quella magica sospensione, tutto diviene possibile: anche vedere l’intero universo in una singola goccia d’acqua...



http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=35420


martedì 9 novembre 2010

domenica 31 ottobre 2010

Itaca



Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.

Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti - finalmente e con che gioia -
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.

Sempre devi avere in mente Itaca -
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.

Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.


- Costantino Kavafis -







domenica 24 ottobre 2010

La voce profonda dell'Io


A ogni passo del suo cammino Siddharta imparava qualcosa di nuovo, poiché il mondo era trasformato e il suo cuore ammaliato. Vedeva il sole sorgere sopra i monti boscosi e tramontare oltre le lontane spiagge popolate di palme. Di notte vedeva ordinarsi in cielo le stelle, e la falce della luna galleggiare come una nave nell’azzurro. Vedeva alberi, stelle, animali, nuvole, arcobaleni, rocce, erbe, fiori, ruscelli e fiumi; vedeva la rugiada luccicare nei cespugli al mattino, alti monti azzurri e diafani nella lontananza; gli uccelli cantavano e le api ronzavano, il vento vibrava argentino nelle risaie. Tutto questo era sempre esistito nei suoi mille aspetti variopinti, sempre erano sorti il sole e la luna, sempre avevano scrosciato i torrenti e ronzato le api, ma nel passato tutto ciò non era stato per Siddharta che un velo effimero e menzognero calato davanti ai suoi occhi, considerato con diffidenza e destinato a essere trapassato e dissolto dal pensiero, poiché non era realtà: la realtà era al di là delle cose visibili. Ma ora il suo occhio liberato s’indugiava al di qua, vedeva e riconosceva le cose visibili, cercava la sua patria in questo mondo, non cercava la “Realtà”, né aspirava ad alcun al di là. Bello era il mondo a considerarlo così: senza indagine, così semplicemente, in una disposizione di spirito infantile. Belli la luna e gli astri, belli il ruscello e le sue sponde, il bosco e la roccia, la capra e il maggiolino, fiori e farfalle. Bello e piacevole andar così per il mondo e sentirsi così bambino, così risvegliato, così aperto all’immediatezza delle cose, così fiducioso. Diverso era ora l’ardore del sole sulla pelle, diversamente fredda l’acqua dei ruscelli e dei pozzi, altro le zucche e le banane. Brevi erano i giorni, brevi le notti, ogni ora volava via rapida come vela sul mare, e sotto la vela una barca carica di tesori, piena di gioia. Siddharta vedeva un popolo di scimmie agitarsi su tra i rami nell’alta volta del bosco e ne udiva lo strepito selvaggio e ingordo. Siddharta vedeva un montone inseguire una pecora e congiungersi con lei. Tra le canne di una palude vedeva il luccio cacciare affannato verso sera: davanti a lui i pesciolini sciamavano a frotte rapidamente, guizzando e balenando fuor d’acqua impauriti; un’incalzante e appassionata energia si sprigionava dai cerchi precipitosi che l’impetuoso cacciatore tracciava nell’acqua.

Tutto ciò era sempre stato, ed egli non l’aveva mai visto: non vi aveva partecipato. Ma ora sì, vi partecipava e vi apparteneva. Luce e ombra attraversavano la sua vista, le stelle e la luna gli attraversavano il cuore.

Cammin facendo Siddharta si ricordò anche di tutto ciò che gli era successo nel giardino Jetavana, della dottrina che vi aveva ascoltato, del Buddha divino, della separazione da Govinda, della conversazione col Sublime. Gli ritornarono alla mente le sue stesse parole, quelle che aveva detto al Sublime, ogni parola, e con stupore si accorgeva che in quella occasione aveva detto cose di cui, allora, non aveva ancora esatta coscienza. Ciò ch’egli aveva detto a Gotama: che il segreto e il tesoro di lui, del Buddha, non era la dottrina, ma l’inesprimibile e ininsegnabile ch’egli una volta aveva vissuto nell’ora della sua illuminazione, questo era appunto ciò che egli cominciava ora a esperimentare. Di se stesso doveva far ora esperienza. Già da un pezzo si era persuaso che il suo stesso Io era l’Atman, di natura ugualmente eterna che quella di Brahma. Ma mai aveva realmente trovato questo suo Io, perché aveva voluto pigliarlo con la rete del pensiero. Anche se il corpo non era certamente quest’Io, e non lo era il gioco dei sensi, però non era l’Io neppure il pensiero, non l’intelletto, non la saggezza acquisita, non l’arte appresa di trarre conclusioni e dal già pensato dedurre nuovi pensieri. No, anche questo mondo del pensiero restava di qua, e non conduceva a nessuna meta uccidere l’accidentale Io dei sensi per impinguare il non meno accidentale Io del pensiero. Belle cose l’una e l’altra, il senso e i pensieri, dietro alle quali stava nascosto il significato ultimo; a entrambe occorreva porgere ascolto, entrambe occorreva esercitare, entrambe bisognava guardarsi dal disprezzare o dal sopravvalutare, di entrambe occorreva servirsi per origliare alle voci più profonde dell’Io. A nulla egli voleva d’ora innanzi aspirare, se non a ciò cui la voce gli comandasse d’aspirare, in nessun luogo indugiarsi, se non dove glielo consigliasse la voce. Perché un giorno Gotama, nell’ora fatidica, s’era seduto sotto l’albero del bo, dove l’illuminazione scese in lui? Aveva udito una voce, una voce nel proprio cuore, che gli ordinava di cercar riposo sotto quell’albero, ed egli non aveva anteposto penitenze, sacrifici, abluzioni o preghiera, non cibo o bevanda, non sonno né sogni; egli aveva obbedito alla voce. Obbedire così, non a un comando esterno, ma solo alla voce, essere pronto così, questo era bene, questo era necessario, null’altro era necessario.


– da “Siddharta” di Hermann Hesse


mercoledì 20 ottobre 2010

La sofferenza è essere lontani da Dio




- Un sufi è un mistico; un uomo che ha capito che, essendo tutto Dio, cerca Dio per trovare il Tutto -



mercoledì 13 ottobre 2010

La meditazione Vipassana - Osho



Domanda:
Pensavo che la meditazione fosse una cosa semplice. Ma vedendo le persone fare Vipassana, ho perso ogni speranza di diventare mai un buon meditatore. Per favore, dammi un piccolo incoraggiamento.


Osho:

La meditazione è semplice. Proprio perché è semplice, sembra difficile. La tua mente è abituata ad avere a che fare con problemi difficili, e ha completamente dimenticato come rispondere alle cose semplici della vita. Più una cosa è semplice, più sembra difficile alla mente, perché la mente è molto efficiente nel risolvere cose difficili. E' stata addestrata a risolvere cose difficili, non sa come affrontare quelle facili. La meditazione è semplice, la tua mente è complicata. Non è un problema creato dalla meditazione. Il problema deriva dalla tua mente, non dalla meditazione.

La Vipassana è la più semplice meditazione del mondo. Con la Vipassana Buddha si è illuminato e con la Vipassana molte altre persone si sono illuminate, più che con ogni altro metodo. Vipassana è il metodo. Certo, esistono anche altri metodi, ma hanno aiutato solo poche persone. La Vipassana ne ha aiutate migliaia ed è veramente molto semplice; non è come lo yoga.

Lo yoga è difficile, arduo, complesso. Devi torturarti in molti modi: distorcere il tuo corpo, contorcere il tuo corpo, stare seduto in questo o quel modo, torturarti, stare sulla tua testa - esercizi su esercizi.... ma lo yoga sembra avere molto fascino sulle persone.

La Vipassana è così semplice che non la prendi affatto in considerazione.
In effetti, avvicinandosi alla Vipassana per la prima volta, uno dubita che possa essere chiamata meditazione. Che cos'è? -- nessun esercizio fisico, nessun esercizio di respirazione; un fenomeno molto semplice: semplicemente osservare il tuo respiro che entra, che esce... finito, questo è il metodo; seduto in silenzio, osservi il tuo respiro che entra, che esce; senza perdere il suo percorso, questo è tutto. Non devi cambiare la tua respirazione - non è pranayama; non è un esercizio di respirazione, in cui devi fare profondi respiri, esalare, inalare, no. Lascia che la respirazione sia semplice, così com'è. Devi solo introdurle una nuova qualità: la consapevolezza.

Il respiro esce, osserva; il respiro entra, osserva. Diventerai consapevole: il respiro che tocca le tue narici in un certo punto, diventerai consapevole. Ti puoi concentrare lì: il respiro entra, senti il tocco del respiro sulle narici; poi esce, senti ancora il tocco. Rimani lì, sulla punta del naso. Non è che devi rimanere concentrato sulla punta del naso; devi solo rimanere attento, essere consapevole, osservare. Non è concentrazione. Non perderlo, solo continua a ricordartelo.
All'inizio lo perderai in continuazione; allora ritorna lì. Se per te è difficile - per alcune persone è difficile osservarlo lì - allora puoi osservare il respiro nella pancia. Quando il respiro entra, la pancia si solleva; quando il respiro esce, la pancia si abbassa. Continui a osservare la tua pancia. Se hai davvero la pancia, questo ti sarà d'aiuto.

Ci hai fatto caso? Se guardi le statue indiane di Buddha, queste statue non hanno la pancia - in effetti non hanno per niente pancia. Buddha sembra un atleta perfetto: spalle in fuori, pancia in dentro. Ma se guardi una statua giapponese di Buddha rimarrai sorpreso: non assomiglia per niente a un Buddha - una grande pancia, talmente grande, che non riesci nemmeno a vedere il petto, come se Buddha fosse incinto, tutto pancia. Il motivo per cui è successo questo cambiamento è che in India, quando viveva Buddha, egli stesso osservava il respiro nel naso, quindi la pancia non era per niente importante. Ma quando la Vipassana si spostò dall'India in Tibet, in Cina, in Corea, in Birmania, in Giappone, lentamente le persone si accorsero che è più facile osservare la pancia che non il naso. E allora le statue di Buddha incominciarono a essere diverse, con pance più grandi.

Puoi osservare la pancia o il naso, quello che ti sembra più giusto per te, o quello che ti sembra più facile. Che sia più facile è il punto. E solo osservando il respiro, succedono miracoli.

La meditazione non è difficile, è semplice. Proprio perché è semplice ti sembra difficile. Ti piacerebbe fare molte cose, e non c'è niente da fare; questo è il problema. E' un grande problema, perché ci è stato insegnato che dobbiamo fare molte cose.
Chiediamo che cosa dobbiamo fare, e meditazione significa uno stato di non-fare: non devi fare niente, devi fermare ogni fare. Devi essere in uno stato di totale inazione. Anche pensare è in un certo senso fare - lascia andare anche quello. Avere sensazioni è in un certo senso fare - lascia andare anche quello. Fare, pensare, avere sensazioni - se tutto viene lasciato cadere, tu semplicemente esisti. Questo è essere. Ed essere è meditazione. E' molto semplice.

Nel grembo di tua madre eri in questo spazio. In Vipassana entrerai di nuovo nello stesso spazio. E ti ricorderai, avrai un deja-vu. Quando entri in Vipassana profondo, resterai sorpreso: lo conosci, lo conoscevi già da prima. Lo riconoscerai immediatamente perché per nove mesi nel grembo di tua madre sei stato in quello stesso spazio, di non fare, solo essere.

Mi chiedi: "Pensavo che la meditazione fosse una cosa semplice, ma vedendo le persone praticare la Vipassana sto perdendo ogni speranza di diventare un buon meditatore".

Non pensare mai alla meditazione in termini di successo.

Perché questo significa portare in essa la mente conquistatrice, la mente egoista. Allora la meditazione diventa un gioco del tuo ego. Non pensare in termini di successo o fallimento. Questi termini non sono applicabili al mondo della meditazione. Dimentica tutto ciò. Questi sono termini della mente; sono comparativi. E questo è il problema: probabilmente hai osservato gli altri aver avuto successo, aver raggiunto, essere in estasi, e ti sei sentito molto giù. Ti sarai sentito stupido, seduto a guardare il tuo respiro, a osservare il tuo respiro. Ti sarai sentito molto stupido e non è successo niente. Non succede niente perché ti aspetti troppo che qualcosa succeda.

E all'inizio, ogni nuovo processo sembra difficile. Uno deve abituarsi al suo sapore.

Il marito di una signora era un ubriacone, e lei non aveva mai assaggiato l'alcool in tutta la sua vita.
"Ehi tu, ubriacone, dammi quella bottiglia. Voglio provare la cosa che ti ha reso il buono a nulla che sei".
Afferrando la bottiglia di whiskey a buon mercato, ne prese un grande sorso. "Aargh....glompf...breecch...fuy...brrrit...ptui!" ansimò "Questo è il liquido più schifoso che ho mai avuto la sfortuna di lasciar passare nelle mie labbra. E' terribile!"
"Vedi?" risponde il vecchio marito. "E in tutti questi anni hai creduto che io mi stessi divertendo".

Aspetta solo un pochino, Paul. Solo un po' di pazienza. All'inizio tutto sembra difficile, anche la cosa più semplice. E non avere fretta.

Questo è uno dei problemi della mente occidentale - la fretta. Le persone vogliono tutto immediatamente. Pensano in termini di caffè istantaneo, meditazione istantanea, illuminazione istantanea.

Un cittadino ereditò una fattoria piena di mucche, ed essendo un furbacchione, decise di incrementare la sua mandria. Pertanto, importò tre tra i più bei tori della zona e li chiuse per la notte nella stalla con le mucche. La mattina seguente chiamò il padrone dei tori per lamentarsi. L'allevatore si mise a ridere. "Che cosa ti aspettavi?" chiese "Pensavi di trovare dei vitelli il giorno dopo?" "Forse no," replicò il cittadino "Ma sicuramente mi aspettavo di vedere un po' di sorriso sulle facce di queste mucche!"

No, neanche questo succederà presto. Sedendoti per un giorno in Vipassana, non ne uscirai sorridendo. Ne uscirai completamente stanco - stanco perché ti è stato detto di non fare niente, stanco perché non sei mai stato in una situazione così stupida prima d'ora. Non fare niente? Tu sei uno che fa! Se avessi tagliato legna tutto il giorno, non saresti stato così stanco. Ma seduto in silenzio, senza fare nulla, solo osservando il tuo stupido respiro che entra e che esce.... molte volte sorge l'idea: "Che cosa sto facendo qui?" E il tempo sembrerà molto, molto lungo, perché il tempo è relativo. Il tempo diventerà lunghissimo. Un giorno ti sembrerà come se fossero passati anni e anni - "E che cosa è successo? Oggi il sole non tramonta? Quando finirà?"

Se hai fretta, se sei impaziente, non conoscerai mai il sapore della meditazione.

Il sapore della meditazione ha bisogno di tanta pazienza, infinita pazienza.

La meditazione è semplice, ma tu sei diventato così complicato, che rilassarti richiederà tempo. Non è la meditazione che richiede tempo - lascia che te lo ricordi ancora - è la tua mente complicata. Deve essere riportata al riposo, ad uno stato di rilassamento. Questo richiede tempo.

E non pensare in termini di successo e fallimento. Divertiti! Non essere troppo orientato ad un fine. Divertiti nel puro silenzio osservando il respiro che entra e che esce, e presto avrai una bellezza, una nuova esperienza di bellezza e beatitudine. Presto vedrai che non occorre andare da nessuna parte per essere in beatitudine. Si può essere seduti in silenzio, da soli, ed essere in beatitudine. Non c'è bisogno d'altro, basta la pulsazione della vita. Se puoi pulsare con lei, diventa una profonda danza interiore.

La meditazione è la danza della tua energia, e il respiro è la chiave.



- tratto da "The Guest", Capitolo 15 -

(dal sito La meditazione come via: http://www.lameditazionecomevia.it/oshomed.htm)

domenica 10 ottobre 2010

Mantra di Tara Bianca




Oṃ Tāre Tuttāre Ture Mama Ayuḥ
Punya Jñānā Puṣtiṃ Kuru Svāhā



domenica 3 ottobre 2010

La scrittura del dio



di Jorge Luis Borges


Il carcere è profondo e di pietra; la sua forma, quella di un emisfero quasi perfetto, perché il pavimento (anch’esso di pietra) è un po’ minore di un cerchio massimo, il che aggrava in qualche modo i sentimenti di oppressione e di vastità. Un muro lo taglia a metà; esso, benché sia altissimo, non tocca la volta. Da un lato sto io, Tzinacàn, mago della piramide di Qaholom, che Pedro de Alvarado incendiò; dall’altro è un giaguaro, che misura con segreti passi uguali il tempo e lo spazio della prigione. Al livello del suolo, una lunga finestra munita di spranghe taglia il muro centrale. Nell’ora senz’ombra, si apre in alto una botola e un carceriere logorato dagli anni manovra una puleggia di ferro e ci cala, mediante una corda, brocche d’acqua e pezzi di carne. La luce entra dalla volta; in quell’istante posso vedere il giaguaro.

Ho perduto il conto degli anni che giaccio nelle tenebre; io, che una volta ero giovane e potevo camminare per questa prigione, non faccio che aspettare, nella posizione della mia morte, la fine che mi destinano gli dèi. Con il profondo coltello di pietra ho aperto il petto delle vittime, e ora non potrei, se non per magia, alzarmi dalla polvere.

Il giorno prima dell’incendio della Piramide, gli uomini che erano scesi da alti cavalli mi torturarono con ferri ardenti perché rivelassi il luogo dov’era nascosto il tesoro. Abbatterono, davanti ai miei occhi, l’immagine del dio, ma questi non mi abbandonò e io rimasi silenzioso fra i tormenti. Mi lacerarono, mi spezzarono, mi deformarono, e infine rinvenni in questo carcere, che non lascerò più nella mia vita mortale.

Spinto dalla necessità di far qualcosa, di popolare in qualche modo il tempo, volli ricordare, nella mia ombra, tutto quel che sapevo. Notti intere consumai a ricordare l’ordine e il numero di certi serpenti di pietra o la forma di un albero medicinale. Così andai debellando gli anni, così rientrai in possesso di quanto era già mio. Una notte sentii che mi avvicinavo a un ricordo prezioso; prima di vedere il mare, il viaggiatore avverte un’agitazione nel sangue. Ore più tardi, cominciai ad avvistare il ricordo; era una delle tradizioni del dio. Questi, prevedendo che alla fine dei tempi sarebbero occorse molte sventure e rovine, scrisse nel primo giorno della Creazione una sentenza magica, atta a scongiurare quei mali. La scrisse in modo che giungesse alle più remote generazioni e che non la toccasse il caso. Nessuno sa in quale punto l’abbia scritta né con quali caratteri, ma ci consta che perdura, segreta, e che la leggerà un eletto. Considerai che eravamo, come sempre, alla fine dei tempi e che il mio destino di ultimo sacerdote del dio mi riserbava il privilegio di decifrare quella scrittura. Il fatto che un carcere mi circondasse non mi vietava tale speranza; forse io avevo visto migliaia di volte l’iscrizione di Qaholom e non dovevo che capirla.

Questa riflessione mi animò e poi mi dette una specie di vertigine. Nell’ambito della terra esistono forme antiche, forme incorruttibili ed eterne; una qualunque di esse poteva essere il simbolo che cercavo. Una montagna poteva essere la parola del dio, o un fiume o l’impero o la configurazione degli astri. Ma nel corso dei secoli le montagne si livellano e il percorso di un fiume suole mutare, gl’imperi conoscono cambiamenti e la figura degli astri varia. Nel firmamento avvengono mutamenti. La montagna e la stella sono individui e gli individui sono caduchi. Cercai qualcosa di più tenace, di più invulnerabile. Pensai alle generazioni dei cereali, dei pascoli, degli uccelli, degli uomini. Forse nel mio volto era scritta la magia, forse io stesso ero il fine della mia ricerca. Ero in questo travaglio quando ricordai che il giaguaro era uno degli attributi del dio.

Allora la mia anima si riempì di pietà. Immaginai la prima mattina del tempo; immaginai il mio dio mentre affidava il messaggio alla pelle viva dei giaguari, che si sarebbero amati e generati senza fine, in caverne, in canneti, in isole, affinché gli ultimi uomini lo ricevessero. Immaginai la rete delle tigri, il caldo labirinto delle tigri, spargere l’orrore per i prati e tra le greggi perché fosse conservato un disegno. Nell’altra cella era un giaguaro; nella sua vicinanza ravvisai una conferma della mia supposizione e un segreto favore.

Dedicai lunghi anni a imparare l’ordine e la configurazione delle macchie. Ogni cieca giornata mi concedeva un istante di luce, e così potei fissare nella mia mente le nere forme che macchiavano il pelame giallo. Alcune racchiudevano punti; altre formavano linee trasversali nella parte interna delle zampe; altre, a disegno anulare, si ripetevano. Forse erano uno stesso suono o una stessa parola. Molte avevano orli rossi.

Non dirò la stanchezza della mia fatica. Spesso gridai alla volta che era impossibile decifrare quel testo. Gradatamente l’enigma concreto che mi occupava m’inquietò meno che l’enigma generale di una sentenza scritta da un dio. Quale tipo di sentenza – mi chiesi – costruirà una mente assoluta? Considerai che anche nei linguaggi umani non c’è proposizione che non implichi l’universo intero; dire “la tigre” è dire le tigri che la generarono, i cervi e le testuggini che divorò, il pascolo di cui si alimentarono i cervi, la terra che fu madre del pascolo, il cielo che dette luce alla terra. Considerai che nel linguaggio di un dio ogni parola deve enunciare questa infinita concatenazione dei fatti, e non in modo implicito ma esplicito, non progressivo ma immediato. Con il tempo, l’idea di una sentenza divina mi parve puerile o empia. Un dio – riflettei – deve dire solo una parola, e in quella parola la pienezza. Nessuna voce articolata da lui può essere inferiore all’universo o minore della somma del tempo. Ombre o simulacri di quella voce che equivale a un linguaggio, sono le ambiziose e povere voci umane tutto, mondo, universo.

Un giorno o una notte – tra i miei giorni e le mie notti, che differenza c’è? – sognai che sul pavimento del carcere c’era un granello di sabbia. Mi riaddormentai, indifferente; sognai che mi destavo e che i granelli di sabbia erano due. Mi riaddormentai; sognai che i granelli di sabbia erano tre. Si andarono così moltiplicando fino a colmare il carcere e io morivo sotto quell’emisfero di sabbia. Compresi che stavo sognando; con un grande sforzo mi destai. Fu inutile; l’innumerevole sabbia mi soffocava. Qualcuno mi disse: “Non ti sei destato alla veglia ma a un sogno precedente. Questo sogno è dentro un altro, e così all’infinito, che è il numero dei granelli di sabbia. La strada che dovrai percorrere all’indietro è interminabile e morrai prima di esserti veramente destato”.

Mi sentii perduto. La sabbia mi rompeva la bocca, ma gridai: “Una sabbia sognata non può uccidermi, né ci son sogni che stiano dentro sogni”. Uno splendore mi destò. Nella tenebra sopra di me si librava un cerchio di luce. Vidi il volto e le mani del carceriere, la ruota di ferro, la corda, la carne e le brocche. Un uomo si confonde, gradatamente, con la forma del suo destino; un uomo è, alla lunga, ciò che lo determina. Più che un decifratore o un vendicatore, più che un sacerdote del dio, io ero un prigioniero. Dall’inesauribile labirinto di sogni tornai, come a una casa, alla dura prigione. Benedissi la sua umidità, benedissi il suo giaguaro, benedissi il foro della luce, benedissi il mio vecchio corpo dolente, benedissi la tenebra e la pietra.

Allora avvenne quel che non posso dimenticare né comunicare. Avvenne l’unione con la divinità, con l’universo (non so se queste parole differiscono). L’estasi non ripete i suoi simboli; c’è chi ha visto Dio in una luce, c’è chi lo ha scorto in una spada o nei cerchi di una rosa. Io vidi una Ruota altissima, che non stava avanti ai miei occhi né dietro né ai lati, ma in ogni parte a un tempo. Quella Ruota era fatta di acqua, ma anche di fuoco, e (benché si vedesse il bordo) era infinita. Intrecciate fra loro, la formavano tutte le cose che saranno, che sono e che furono, ed io ero uno dei fili di quella trama totale, e Pedro de Alvarado, che mi fece tormentare, era un altro. Lì erano le cause e gli effetti e mi bastava vedere quella Ruota per comprendere tutto, senza fine. Oh gioia di comprendere, maggiore di quella di operare o di sentire. Vidi l’universo e vidi gl’intimi disegni dell’universo. Vidi le origini che narra il Libro della Tribù. Vidi le montagne che sorsero dall’acqua, vidi i primi uomini di legno, vidi i vasi che si ribellarono agli uomini, vidi i cani che lacerarono loro la faccia. Vidi il dio senza volto che sta dietro gli dèi. Vidi infiniti processi che formavano una sola felicità e, comprendendo ormai tutto, potei anche capire la scrittura della tigre.

È una formula di quattordici parole casuali (che sembrano casuali) e mi basterebbe pronunciarla ad alta voce per essere onnipotente. Mi basterebbe dirla per abolire questo carcere di pietra, perché il giorno invadesse la mia notte, per essere giovane e immortale, perché il giaguaro lacerasse Alvarado, per affondare il santo coltello in petti spagnoli, per ricostruire la piramide e l’impero. Quaranta sillabe; quattordici parole, e io, Tzinacàn, governerei le terre governate da Moctezuma. Ma so che mai dirò quelle parole, perché non mi ricordo più di Tzinacàn.

Muoia con me il mistero che è scritto nelle tigri. Chi ha scorto l’universo, non può pensare a un uomo, alle sue meschine gioie o sventure, anche se quell’uomo è lui. Quell’uomo è stato lui e ora non gl’importa più. Non gl’importa la sorte di quell’altro, non gl’importa la sua azione, poiché egli ora è nessuno. Per questo non pronuncio la formula, per questo lascio che i giorni mi dimentichino, sdraiato nelle tenebre.


– racconto tratto dal libro “L’Aleph”



lunedì 27 settembre 2010

E' tempo di aspettare per fare qualcosa di grande importanza

I Tarocchi Zen di Osho
74. La pazienza


Abbiamo dimenticato come aspettare: è uno spazio praticamente abbandonato. Essere in grado di aspettare il momento giusto è il nostro bene più prezioso. L'intera esistenza aspetta il momento giusto. Perfino gli alberi lo sanno - quando è tempo di fiorire e quando è tempo di far cadere le foglie ed ergersi nudi verso il cielo. Ancora conservano una loro bellezza in quella nudità, in attesa del nuovo fogliame, immersi in una fiducia profonda: il vecchio se n'è andato e ben presto arriverà il nuovo, e i nuovi germogli inizieranno a spuntare. Noi abbiamo dimenticato come aspettare: vogliamo tutto e in fretta. Questa è una grossa perdita per l'umanità... In silenzio e nell'attesa, qualcosa in te continua a crescere - il tuo essere autentico. E un giorno balzerà fuori e diventerà una fiamma, e annienterà la tua personalità: sarai un uomo nuovo! E questo uomo nuovo sa a quale grande cerimonia partecipa, conosce il nettare eterno della vita.

Osho Zen: The Diamond Thunderbolt Chapter 10


Commento:

Ci sono momenti nei quali la sola cosa da fare è aspettare. Il seme è stato seminato, il bambino sta crescendo nel ventre, l'ostrica sta intessendo il granello di sabbia, tramutandolo in una perla. Questa carta ci ricorda che questo è un tempo in cui la sola cosa che ci venga richiesta è essere attenti, pazienti, in attesa. La donna qui raffigurata è proprio in quest'atteggiamento. Appagata, senza alcuna traccia d'ansia, è semplicemente in attesa. Attraverso tutte le fasi lunari che scorrono sopra la sua testa, rimane paziente, in profonda sintonia con i ritmi della luna, al punto da essersi praticamente unita a lei. La donna sa che è tempo di essere passivi, lasciando che la natura faccia il suo corso. Ma non è né assonnata né indifferente; sa che deve tenersi pronta per qualcosa di grande importanza. È un'epoca colma di mistero, come lo sono le ore che precedono l'alba. È un momento in cui la sola cosa da fare è aspettare.


giovedì 23 settembre 2010

La poesia non è fuori: è dentro.




- dal film "La tigre e la neve" di e con Roberto Benigni -


mercoledì 15 settembre 2010

Perché la vita non muore.

In ricordo di Oriana Fallaci





- da “Lettera a un bambino mai nato” -


Mi hanno salutato con grande entusiasmo, come se fossi stata ammalata a un piede o a un orecchio ed ora mi accingessi a trascorrere una convalescenza. Si sono congratulati per il lavoro che son riuscita a condurre a termine malgrado-le-difficoltà. Mi hanno portato a mangiare. E non una parola su te. Quando ho tentato io, hanno assunto un’aria tra evasiva e imbarazzata: quasi alludessi a un argomento sgradevole o volessero dirmi non-ci-pensiamo-più-quel-che-è-stato-è-stato. Più tardi la mia amica m’ha preso da parte e, col tono di ricordarmi un appuntamento importante, ha detto d’essersi consultata col medico il quale sostiene che non è il caso di contare su una tua partenza spontanea: se non ti faccio togliere, muoio di setticemia. Sì, bisogna che mi decida: sarebbe paradossale se, per ristabilir l’equilibrio, tu uccidessi me. Ho ancora tante cose da fare. Tu non le hai incominciate, ma io sì. Ho da sviluppare la mia carriera, ad esempio, e dimostrare che non sono meno brava di un uomo. Ho da battermi contro le comodità dei punti esclamativi, ho da indurre la gente a porsi più perché. Ho da spegnere la pietà per me stessa, e convincer me stessa che il dolore non è il sale della vita. Il sale della vita è la felicità, e la felicità esiste: consiste nel darle la caccia. Infine devo ancora chiarire il mistero che chiamiamo amore. Ma non quello che si divora in un letto, toccandoci: quello che mi accingevo a conoscer con te... Mi manchi, bambino. Mi manchi quanto mi mancherebbe un braccio, un occhio, la voce: e tuttavia mi manchi meno di ieri, meno di stamani. È strano. Si direbbe che di ora in ora il tormento si affievolisca per chiudersi in una parentesi. I lupi hanno già incominciato a chiamarmi, e non importa se sono lontani: quando si avvicineranno, lo sento, li seguirò. Davvero ho sofferto così profondamente ed a lungo? Me lo chiedo con incredulità. Una volta lessi in un libro che la durezza di una pena sopportata si avverte soltanto quando ce ne siamo liberati e, stupefatti, si esclama: come ho fatto a tollerare un simile inferno? Dev’essere davvero così, e la vita è straordinaria: rimargina le ferite a una velocità folle. Se non restassero le cicatrici, non ci ricorderemmo nemmeno che di lì sgorgò il sangue. Del resto anche le cicatrici svaniscono. Impallidiscono e infine svaniscono. Succederà anche a me.

Succederà? Deve succedere! Perché lo pretendo, lo esigo. Infatti ora stacco il tuo ritratto dal muro, la smetto di farmi impressionare dai tuoi occhi spalancati. E nascondo le altre fotografie. Anzi le strappo. E faccio a pezzi questa culla che mi son portata dietro come una bara. La scaravento nell’inceneritore. E regalo il tuo guardaroba. Anzi lo straccio. E prendo appuntamento col medico, gli dico che sono d’accordo, che bisogna strapparti via. E magari chiamo tuo padre, o non importa chi, e stasera vado con lui. Perché io sono viva... così viva che non accetto processi, non accetto verdetti, neanche il tuo perdono... E perché i lupi non sono lontani. Sono già qui, ed io posso partorirti cento volte senza implorare soccorso né a Dio né a nessuno... Dio, che male! Mi sento male, ad un tratto. Cos’è? Di nuovo le coltellate. Si allungano fino al cervello come allora, per bucarlo come allora... Sto sudando. Mi sale la febbre. È arrivato il nostro momento, bambino... Il momento di separarci... E non vorrei... Non voglio... Non voglio che ti strappino come un dente cariato, per gettarti nella pattumiera tra il cotone sporco e le garze... Ma non ho scelta. Se non ti strappano via, mi ammazzi. E tu sbagliavi, tu sbagli, a pensare che io non credo alla vita... Ci credo, ci credo! E mi piace. Anche con le sue ingiustizie, le sue tristezze, le sue infamie... E intendo viverla ad ogni costo. Io corro, bambino. E ti dico addio con fermezza.


Sopra di me c’è un soffitto bianco e accanto a me, dentro un bicchiere, ci sei tu. Non volevano che ti vedessi ma li ho convinti affermando che era mio diritto e ti hanno posato lì: con una smorfia di disapprovazione. Ti guardo, finalmente. E mi sento beffata perché non hai proprio nulla in comune con il bambino della fotografia. Non sei un bambino: sei un uovo. Un uovo grigio che galleggia in un alcool rosa e dentro il quale non si scorge nulla. Finisti assai prima che se ne accorgessero: non arrivasti mai ad avere le unghie e la pelle e le infinite ricchezze che io ti regalavo. Creatura della mia fantasia, riuscisti appena a realizzare il desiderio di due mani e due piedi, qualcosa che assomigliava ad un corpo, l’abbozzo di un volto con un nasino e due microscopici occhi. In fondo amai un pesciolino. E per amore di un pesciolino mi inventai un calvario in seguito al quale rischio di finire anch’io. È inaccettabile. Ma perché non ti ho fatto togliere prima? Perché ho perso tanto tempo prezioso lasciando che tu mi avvelenassi? Sto male, sembrano tutti allarmati. Mi hanno infilato aghi nel braccio destro e nel polso sinistro, dagli partono tubi sottili che salgono come serpenti fino ai boccioni. L’infermiera si aggira con passi d’ovatta. Ognitanto entra il dottore con un altro dottore e si scambiano frasi che non capisco ma che suonano come minacce. Darei molto perché arrivassero la mia amica o tuo padre, meglio ancora i miei genitori: m’era parso di udirne le voci. Invece non viene nessuno fuorché quei due col camice bianco: uno è lo stesso che mi condannò? Un momento fa s’è arrabbiato. Ha detto: «Raddoppiate la dose!». La dose di che? Della pena? L’ho già scontata, devo ricominciare? Poi ha detto: «Svelti, non capite che se ne va?». Chi se ne va? Non tu... Tu sei già morto... Morto senza sapere cosa significa essere vivo: senza sapere cosa sono i colori, i sapori, gli odori, i suoni, i sentimenti, il pensiero. Mi dispiace: per te e per me. Mi umilia. Perché a cosa serve volare come un gabbiano dentro l’azzurro se non si generano altri gabbiani che ne genereranno altri ancora ed ancora per volare dentro l’azzurro? A cosa serve giocare come bambini se non si generano altri bambini che ne genereranno altri ancora ed ancora per giocare e divertirsi? Dovevi resistere. Dovevi combattere, vincere. Hai ceduto troppo presto, ti sei rassegnato troppo alla svelta: non eri fatto per la vita. Chi si spaventa per un paio di fiabe, per due o tre avvertimenti? Eri simile a tuo padre: lui trova comodo riposarsi in Dio, tu trovasti comodo riposarti non nascendo. Chi di noi due ha tradito? Non io. Sono molto stanca, non sento più le gambe, a intervalli mi si annebbiano gli occhi e il silenzio m’avvolge come un ronzio di vespe. Eppure non cedo, io, guarda. Tengo duro, io, guarda. Siamo talmente differenti. Non devo addormentarmi. Devo stare sveglia e pensare. Se penso, forse, resisto. Da quando stai in quel bicchiere? Da ore, da giorni, da anni? Magari sono giorni e a me sembrano anni: non posso lasciarti ancora in un bicchiere. Bisogna che ti sistemi in un posto più dignitoso: ma dove? Forse ai piedi della magnolia. Il fatto è che la magnolia è lontana: si trova nel tempo in cui anch’io ero piccina. Il presente non ha magnolie. Nemmeno la mia casa. Dovrei portarti a casa. Al mattino, però. Ora è notte: il soffitto bianco sta diventando nero. E fa freddo. Meglio che infili il cappotto per scendere giù. Via, andiamo: ti porto. Vorrei tenerti fra le braccia, bambino. Ma sei così minuscolo: non posso tenerti fra le braccia. Posso appoggiarti sulla palma di una mano ed è tutto. Purché un colpo di vento non ti rubi. Ecco una cosa che non capisco: può rubarti un colpo di vento e tuttavia pesi tanto, barcollo. Dammi la mano, ti prego: così. Bravo. Ora sei tu che mi conduci, mi guidi. Ma allora non sei un uovo, non sei un pesciolino: sei un bambino! Mi arrivi già al ginocchio. No, al cuore. Non, alla spalla. No, al di sopra della spalla. Non sei un bambino, sei un uomo! Un uomo con dita forti e gentili. Ne ho bisogno ormai: sono vecchia. Non riesco nemmeno a scendere i gradini se non mi sorreggi. Ricordi quando andavamo su e giù per questa scala, attenti a non cadere, stretti l’uno all’altra in un abbraccio di complicità? Ricordi quando ti insegnavo ad andarci da solo, camminavi da poco, e contavamo i gradini ridendo? Ricordi come imparavi aggrappandoti ad ogni sporgenza, ansimando, mentre io ti seguivo con le mani tese? E il giorno in cui litigammo perché non ascoltavi le mie raccomandazioni? Dopo mi dispiacque. Volevo chiederti scusa ma non mi riusciva. Ti cercavo di sotto le ciglia e anche tu mi cercavi di sotto le ciglia finché ti fiorì sulle labbra un sorriso e compresi che avevi compreso. Poi cosa accadde? Il mio pensiero si appanna... le mie palpebre sembrano piombo... È il sonno o la fine? Non devo cedere al sonno, alla fine. Aiutami a restare sveglia, rispondimi: fu difficile usare le ali? Ti spararono in molti? Gli sparasti a tua volta? Ti oppressero nel formicaio? Cedesti alle delusioni e alle rabbie oppure rimanesti dritto come un albero forte? Scopristi se c’è la felicità, la libertà, la bontà, l’amore? Spero che i miei consigli ti siano serviti. Spero che tu non abbia mai urlato l’atroce bestemmia “perché sono nato?”. Spero che tu abbia concluso che ne valeva la pena: a costo di soffrire, a costo di morire. Sono così orgogliosa d’averti tirato fuori dal nulla a costo di soffrire, a costo di morire. Fa davvero freddo e il soffitto bianco ora è proprio nero. Ma siamo arrivati, ecco la magnolia. Cogli un fiore. Io non ci sono mai riuscita, tu ci riuscirai. Alzati sulla punta dei piedi, allunga un braccio. Così. Dove sei? Eri qui, mi sorreggevi, eri grande, eri un uomo. E ora non ci sei più. C’è solo un bicchiere di alcool dentro il quale galleggia qualcosa che non volle diventare un uomo, una donna, che non aiutai a diventare un uomo, una donna. Perché avrei dovuto, mi chiedi, perché avresti dovuto? Ma perché la vita esiste, bambino! Mi passa il freddo a dire che la vita esiste, mi passa il sonno, mi sento io la vita. Guarda, s’accende una luce... Si odono voci... Qualcuno corre, grida, si dispera... Ma altrove nascono mille, centomila bambini, e mamme di futuri bambini: la vita non ha bisogno né di te né di me. Tu sei morto. Ora muoio anch’io. Ma non conta. Perché la vita non muore.


sabato 11 settembre 2010

Lo stato di non-mente


Per esempio, sul lavoro vi dicono che sono necessari dei tagli al personale e quindi è molto probabile che perderete il vostro posto “sicuro” entro qualche mese. Il responsabile del personale vi consiglia di cominciare a cercare qualcos’altro.

Altro esempio: il partner che amate in questo momento, vi dice che ha conosciuto un’altra persona, di norma questa persona può dargli qualcosa che voi non potete dare, quindi – alla pari del vostro responsabile del personale – vi consiglia di cominciare a cercare qualcos’altro! Ma... ovviamente... si può sempre restare buoni amici!

Cosa accade nelle ore e nei giorni successivi?
Il centro mentale e quello emotivo immediatamente si coalizzano – in oriente questa “associazione a delinquere” viene chiamata kama-manas – per cercare di sopravvivere alla situazione pericolosa che si è venuta a creare. Questo significa in termini pratici che il plesso solare si surriscalda, si contrae, fa male, provoca senso di nausea, mentre l’intero corpo emotivo vibra. Le vibrazioni del corpo emotivo raggiungono il mentale, il quale inizia a produrre pensieri in maniera incontrollata. I pensieri mentali sono legati al tempo, quindi saranno tutti ricordi del passato e anticipazioni del futuro.

Nel primo esempio, quello del lavoro, comincerete a pensare agli anni trascorsi in quella azienda: le promesse che vi avevano fatto, i successi ottenuti, i colleghi simpatici e quelli antipatici, le ingiustizie subite in silenzio, la pazienza e la dedizione verso il lavoro che avete mantenuto in maniera costante (questo in realtà non è mai avvenuto... ma in questa situazione alla vostra mente sembrerà di ricordare di averlo fatto!). Poi pensate al futuro: che cosa farete adesso? Da domani dovete cominciare a cercare lavoro... da chi andrete per primo? Come vi organizzerete? E se non doveste trovare nulla nei prossimi mesi? Cavolo... la moglie... i bambini... Che situazione terribile! Perché proprio a voi? Dove avete sbagliato? A tratti, vi viene quasi voglia di farla finita.
Ogni volta che pensate a tutto questo – essendosi emotivo e mentale coalizzati – il plesso solare vi fa ancora più male, cioè soffrite ancora di più.

Nel secondo esempio, quello della coppia, comincerete a pensare agli anni – a volte anche solo mesi – trascorsi con quella persona: le promesse che vi aveva fatto, i momenti divertenti trascorsi insieme, le chiacchierate sugli argomenti in comune, i progetti, la fusione nel sesso, lo stare abbracciati, l’odore dell’altro, lo sguardo, il modo di muoversi, i sacrifici fatti per lui/lei... Poi pensate al futuro: magari torna (no, non torna... ma in questa situazione alla vostra mente piace immaginare l’altro che batte sull’uscio di casa implorando di poter tornare con voi!), se lo rincontrate gli dovete dire questo e poi questo, e anche se lui risponde così, poi voi rispondete così (ore di dialoghi immaginari, che non sono mai avvenuti e forse non avverranno mai), immaginate cosa avreste potuto fare insieme e non potrete più fare, non riuscite a immaginare la vostra vita senza l’altro, non riuscite a pensare di potervi innamorare di nuovo in quel modo.
Ogni volta che pensate a tutto questo – essendosi emotivo e mentale coalizzati – il plesso solare vi fa ancora più male, cioè soffrite ancora di più.

È bene sia chiaro che tutti questi dialoghi interni fanno parte di un’attività totalmente MECCANICA, ossia, non voluta da VOI.
Come si esce da questa situazione? Sarò sincero: se non siete abituati a lavorare su voi stessi attraverso l’osservazione distaccata di emotivo e mentale... sono tutti cazzi vostri!!!

Restate per ore, per giorni, a volte per mesi... imbambolati, con la mente che pensa a ricordi e anticipazioni in maniera compulsiva, immersa nel dialogo interno, costringendovi a provare frustrazione, sconforto, a volte grande rabbia o addirittura odio verso l’azienda, il partner o il mondo stesso. La consapevolezza di sé scende ai minimi livelli e voi restate prigionieri delle paure dei vostri involucri animali.
E potete solo aspettare che passi.

Chi ha già maturato una certa esperienza nel lavoro su di sé, ha qualche possibilità in più. Ma sarò ancora più sincero: non basta “una certa esperienza”, dovete aver raggiunto un preciso grado iniziatico che consiste nella capacità di osservare il corpo emotivo e tenerlo a bada. In questo stato, anche se l’immaginazione negativa della mente è ancora attiva (ma quando l’emotivo non è coinvolto, lo è già molto meno), la sofferenza emotiva non si mette più in moto. Siete dunque riusciti a operare il distacco fra kama e manas, siete liberi dalle tempeste emotive, le quali vi impediscono di agire con il Cuore in uno stato di lucidità interiore.

Disidentificarsi da mente ed emozioni significa smettere di dare importanza a ciò che la mente pensa e ciò che il corpo emotivo prova. Per esempio, voi siete convinti che dalla mente possano giungere le soluzioni ai problemi che si creano sul lavoro o nella coppia, pertanto, da questa prospettiva, se fate tacere la mente avete meno possibilità di risolvere i vostri problemi. Pensando in questo modo non troverete mai la giusta Volontà per osservare la mente da fuori! Se pensate di perdere qualcosa di prezioso... non ve ne distaccherete mai. Invece proprio quando vi distaccate dai pensieri della mente e iniziate a osservarli da fuori, arrivano le soluzioni più illuminanti ai vostri problemi!

Questa è addirittura la fase più importante, perché nel momento in cui possedete la certezza che i ricordi e le anticipazioni prodotti dalla vostra mente sono solo secrezioni prive di utilità pratica che niente aggiungono alla comprensione della situazione, il distacco diventa unicamente una questione di tempo.
Il dolore emotivo, per quanto forte, viene ridimensionato e ricondotto entro i suoi confini naturali: è solo il dolore di un corpo, senza una sofferenza psicologica collegata, come quando vi pestate un dito col martello.

Il dolore è però un Piombo prezioso, per questo motivo non va mai rifiutato, ma semplicemente osservato in stato di Presenza. La rabbia, il desiderio di vendetta, il senso di abbandono, il senso di impotenza, la paura... ognuna di queste emozioni può essere utilizzata per entrare ancora più profondamente nella Presenza e quindi nella non-mente. Ognuna di queste emozioni può essere un trampolino di lancio verso la Libertà definitiva: proprio quando state soffrendo di più siete più vicini alla Presenza, ma dovete cavalcare l’onda, non farvi sommergere.

Riassumendo. Prima vi sforzate di restare PRESENTI e osservare le vostre reazioni emotive e i conseguenti pensieri negativi. Man mano che l’emotivo si tranquillizza vi concentrate maggiormente sui pensieri stessi. L’osservazione continua fa sì che nel grado iniziatico successivo siate in uno stato di PRESENZA e osservazione così puri che i pensieri vanno e vengono senza toccarvi... fino a quando non si producono nemmeno più. Questo è lo stato di non-mente, che all’inizio va e viene, ma col tempo diventa stabile.

La non-mente è il Rifugio dell’anima, una porta verso l’Amore privo di condizioni. È pace con se stessi e con gli altri. Un senso di totale rilassamento, ma anche viva Presenza. Un senso di ESSERCI esaltato all’ennesima potenza, ma anche Compassione per le afflizioni del mondo, un Cuore bruciante di passione per la Vita.

La vostra capacità di restare PRESENTI in stato di osservazione dell’attività emotiva/mentale, decide se alla prossima occasione soffrirete solo per qualche ora o per qualche mese.
Buon Lavoro.


- Salvatore Brizzi -

http://www.salvatorebrizzi.com/2010/06/lo-stato-di-non-mente.html


martedì 7 settembre 2010

Dal profondo dell'anima

Documentario di Werner Weick su Carl Gustav Jung




- Dio è una sfera infinita, o un circolo, il cui centro è dovunque, e la circonferenza in nessun luogo -



mercoledì 1 settembre 2010

La vita è un fiume che scorre


Non so se, nel corso delle vostre passeggiate, avete notato uno stagno lungo e stretto accanto al fiume. Deve essere stato scavato dai pescatori e non è collegato al fiume. Mentre quest’ultimo scorre incessantemente, largo e profondo, lo stagno è torbido, perché non è collegato alla vita del fiume e non contiene pesci. Le sue acque sono ferme, mentre il fiume, che scorre rapido, lì accanto, è pieno di vita e di movimento.

Non pensate che gli esseri umani siano anch’essi così? Si scavano una piccola pozza separata dalla corrente rapida della vita e in quella piccola pozza ristagnano e muoiono; ma, è proprio quella stagnazione, quel declino, che chiamiamo esistenza. In altri termini, noi tutti desideriamo uno stato di permanenza; vogliamo che certi desideri durino per sempre, vogliamo che i piaceri non abbiano mai fine. Scaviamo una piccola tana e ci barrichiamo dentro con le nostre famiglie, ambizioni, culture, paure, divinità, forme di culto, e lì moriamo, lasciando che la vita ci scorra accanto – quella vita che è impermanente, in perenne mutamento, che è così rapida, ha insondabili profondità, un’eccezionale vitalità e bellezza.

Avete notato che, se sedete in silenzio sulla riva del fiume, ne udite il canto – lo sciabordio dell’acqua, il rumore della corrente? C’è sempre un senso di movimento, uno straordinario movimento verso ciò che è più ampio e più profondo.

Ma, nella piccola pozza non c’è alcun movimento, la sua acqua è stagnante. E se osservate, vedrete che è questo che la maggior parte di noi desidera: piccole pozze stagnanti di esistenza lontano dalla vita. Affermiamo che questa nostra esistenza stagnante è giusta e abbiamo inventato una filosofia per giustificarla; abbiamo sviluppato teorie sociali, politiche, economiche e religiose in suo sostegno e non vogliamo essere disturbati perché, in definitiva, siamo alla ricerca di un senso di permanenza.

Sapete cosa significa ricercare la permanenza? Significa volere che le cose piacevoli durino indefinitamente e che quelle spiacevoli cessino al più presto. Vogliamo che il nome che portiamo sia conosciuto e tramandato attraverso la famiglia e la proprietà. Vogliamo un senso di permanenza nei rapporti, nelle attività, il che vuol dire che cerchiamo una vita durevole e continua nella nostra pozza stagnante; non desideriamo alcun vero cambiamento, così abbiamo edificato una società che ci garantisce la permanenza di proprietà, nome e fama.

Ma, vedete, la vita non è affatto così; la vita non è permanente. Come le foglie che cadono da un albero, tutte le cose sono impermanenti, niente dura; il cambiamento e la morte sono inevitabili. Avete mai notato quanto è bello un albero spoglio che si staglia contro il cielo? Tutti i rami sono perfettamente delineati, e nella sua nudità c’è una poesia, un canto. Tutte le foglie sono cadute ed esso attende la primavera. Quando questa arriva, riempie nuovamente l’albero della musica di molte foglie, che a tempo debito cadono e vengono spazzate via dal vento; e questo è il cammino della vita.

Ma, noi, non vogliamo niente del genere. Ci aggrappiamo ai nostri figli, alle tradizioni, alla società, al nome che portiamo, alle nostre piccole virtù, perché desideriamo la permanenza; ecco perché abbiamo paura di morire. Abbiamo paura di perdere le cose che conosciamo. Ma, la vita non è quella che vorremmo; la vita non è affatto permanente. Gli uccelli muoiono, la neve si scioglie, gli alberi vengono tagliati o abbattuti dalle tempeste, e così via.

Noi, però, vogliamo che tutto ciò che ci dà soddisfazione sia permanente; vogliamo che la nostra posizione sociale e l’autorità che abbiamo sulle persone durino. Ci rifiutiamo di accettare la vita così com’è veramente.

Il fatto è che la vita è come un fiume: procede incessantemente, sempre intenta a cercare, esplorare, spingere, traboccare, penetrare ogni fessura con la propria acqua. Ma, vedete, la mente non consentirà che le accada questo. La mente capisce che è pericoloso vivere in uno stato di impermanenza, di insicurezza, e così si costruisce un muro attorno: il muro della tradizione, della religione organizzata, delle teorie politiche e sociali. La famiglia, il nome, la proprietà, le piccole virtù che abbiamo coltivato – sono tutti racchiusi dentro le mura, lontano dalla vita.

La vita è mobile, impermanente, e cerca incessantemente di infiltrare, di abbattere queste mura, dietro le quali c’è confusione e infelicità. Gli dei all’interno delle mura sono tutti falsi dei, e i loro scritti e le loro filosofie non hanno alcun significato, poiché la vita è al di là di essi.

Una mente che non abbia mura, che non sia gravata dal peso delle proprie acquisizioni, delle cose accumulate, della conoscenza, una mente che viva senza tempo, senza sicurezza – per una mente simile, la vita è una cosa straordinaria. Una mente così è la vita stessa, perché la vita non conosce rifugio. Ma la maggior parte di noi desidera un rifugio: una casetta, un nome, una posizione, tutte cose che affermiamo essere molto importanti. Chiediamo permanenza e creiamo una cultura fondata su tale bisogno, inventando dei che non sono affatto dei, ma semplici proiezioni dei nostri stessi desideri.

Una mente che ricerchi la permanenza è presto destinata a ristagnare; rapidamente si riempie di corruzione e di decadenza, proprio come lo stagno lungo il fiume. Solo la mente che non ha mura, né punti fermi, né barriere o rifugi, che si muove all’unisono con la vita, spingendosi sempre avanti, incurante del tempo, esplorando, esplodendo – solo una mente simile può essere felice, eternamente nuova, poiché è intrinsecamente creativa.

Capite di cosa sto parlando? Dovreste capire, perché tutto ciò fa parte di una vera educazione: se ne afferrate il significato, l’intera vostra vita sarà trasformata, e il vostro rapporto con il mondo, con il prossimo, con vostro marito o vostra moglie, assumeranno un significato totalmente differente. Allora non cercherete più di realizzarvi attraverso qualcosa, rendendovi conto che la ricerca dell’autorealizzazione porta solo dolore e infelicità. Ecco perché dovreste chiedere tutto questo ai vostri insegnanti e discuterne fra di voi. Se lo comprendete, avrete cominciato a comprendere la straordinaria verità di ciò che è la vita, e in quella comprensione c’è grande bellezza e amore, il fiorire della bontà. Ma gli sforzi di una mente che ricerca una pozza di sicurezza, di permanenza, possono solo portare all’oscurità e alla corruzione. Una volta installatasi nella pozza, una mente simile ha paura di avventurarsi fuori, di cercare, di esplorare; ma la verità, Dio, la realtà o quel che preferite, si trovano oltre la pozza.

Sapete che cos’è la religione? Non è nelle preghiere salmodiate, né nel compimento di un rito, né nell’adorazione di dei di latta, o immagini di pietra, non è nei templi e nelle chiese, né nella lettura della Bibbia, o della Bhagavadgita, non consiste nel ripetere un nome sacro, o nel seguire qualche altra superstizione inventata dagli uomini. Nulla di tutto ciò è religione.

La religione è il sentimento di bontà, quell’amore che è simile a un fiume, vivo, eternamente in movimento. In quello stato scoprirete che arriva un momento in cui ogni ricerca cessa del tutto; e la fine della ricerca è l’inizio di qualcosa di totalmente differente. La ricerca di Dio, della verità, il sentirsi completamente buoni – non il coltivare la bontà e l’umiltà, ma il cercare qualcosa al di là delle invenzioni e dei trucchi della mente, il che significa sentire quel qualcosa, vivere in esso, esserlo – quella è la vera religione.

Ma ciò è possibile solo se lasciate la pozza che vi siete scavati e vi gettate nel fiume della vita. Allora la vita vi stupirà prendendosi cura di voi, poiché voi non ve ne prenderete più cura. La vita vi porterà dove vorrà, poiché ne siete parte; non vi sarà alcun problema di sicurezza, di ciò che la gente dice o non dice: e questa è la bellezza della vita.



- da "La ricerca della felicità" di Jiddu Krishnamurti -


http://www.pomodorozen.com/zen/la-ricerca-della-felicita-krishnamurti/


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