domenica 31 gennaio 2010

Entrare nelle acque dell'esistenza... e fluire

I Tarocchi Zen di Osho
58. Seguire il flusso


Quando dico: "Diventa acqua", voglio dire: "Diventa un flusso". Non restare stagnante, muoviti, e muoviti come l'acqua. Lao Tzu dice: "La via del Tao è la via di un corso d'acqua". Si muove come l'acqua. Qual è il movimento dell'acqua, di un fiume? È un movimento che ha alcune splendide caratteristiche. La prima: si muove sempre verso le profondità, cerca il terreno più basso. Non è ambizioso; non aspira mai a essere il primo, vuol essere l'ultimo. Ricorda, Gesù dice: "Coloro che qui sono gli ultimi, saranno i primi nel regno di Dio". Sta parlando della via dell'acqua, o via del Tao - senza farne menzione, ma ne parla. Sii l'ultimo, non essere ambizioso. L'ambizione implica scalare, camminare in salita. L'acqua va verso il basso, cerca il terreno più basso; vuol essere una non-entità. Non vuole dichiararsi unica, eccezionale, straordinaria. Non ha alcuna idea dell'Ego.

Osho Take it Easy, Volume 1 Chapter 14


Commento:

La figura di questa carta è completamente rilassata e a suo agio nell'acqua, e lascia che la porti dove vuole. È padrona dell'arte di essere passivi e ricettivi, senza essere spenti e sonnacchiosi. È pienamente disponibile alle correnti della vita, e non pensa mai di dire: "Questo non mi piace", oppure: "Preferisco quell'altra strada". Ad ogni istante nella vita abbiamo la possibilità di scegliere se entrare nelle acque dell'esistenza e fluire, oppure cercare di nuotare controcorrente. Quando questa carta compare in una lettura, è un segno che adesso si è pronti a fluire, fidando nel fatto che la vita ti sosterrà nel tuo rilassamento e ti porterà esattamente dove vuoi andare. Permetti a questa sensazione di fiducia e di rilassamento di crescere sempre più; ogni cosa sta accadendo esattamente come dovrebbe.


venerdì 29 gennaio 2010

L’eredità della Legge fondamentale della vita


Ho letto con grande attenzione la tua lettera. Rispondo che la Legge fondamentale di vita e morte è Myoho-renge-kyo. Infatti i cinque caratteri (1) di Myoho-renge-kyo furono trasmessi al bodhisattva Jogyo dai due Budda Shakyamuni e Taho seduti nella Torre Preziosa, perpetuando un’eredità ininterrotta sin dall’infinito passato. Myo significa morte, ho vita. I due fenomeni di nascita e morte sono manifestati dalle entità dei dieci mondi, chiamate anche entità di Renge.

T’ien-t’ai disse: «Sappiate che tutte le cause e gli effetti degli esseri senzienti e dei loro ambienti (esho) manifestano la legge del Loto» (2) . In questa spiegazione «esseri senzienti e loro ambienti» designano vita e morte. Se c’è nascita e morte, c’è causa ed effetto ed è evidente che c’è anche la Legge del Loto (3) .

Il Gran Maestro Dengyo disse: «I due fenomeni di nascita e morte sono le funzioni misteriose della vita. Le due verità di esistenza e non-esistenza sono il vero beneficio dell’Illuminazione originale» (4) . Cielo e terra, yin e yang (5) , il sole e la luna, i cinque pianeti (6) , i vari mondi da Inferno a Buddità, non sono esenti dai due fenomeni di nascita e morte. Anche le loro nascite e morti non sono altro che nascita e morte di Myoho-renge-kyo.

T’ien-t’ai scrisse nel Maka shikan: «L’apparizione [di tutte le cose] è l’apparizione della loro vera natura (7) ; la loro scomparsa è la scomparsa di tale natura [nello stato di latenza]» (8). Anche i Budda Shakyamuni e Taho rappresentano i due fenomeni di nascita e morte.

Recitare Myoho-renge-kyo con la consapevolezza che non esiste alcuna differenza fra Shakyamuni illuminato nel lontano passato, il Sutra del Loto che è la strada dell’Illuminazione di tutti gli esseri, e noi comuni mortali, questa è l’eredità della Legge fondamentale della vita. Questo è essenziale per i discepoli, preti e laici, di Nichiren: questo è il significato di abbracciare il Sutra del Loto. (9)

Per chi, sentendosi giunto al suo ultimo momento, raccoglie la sua fede e recita Nam-myoho-renge-kyo, il sutra proclama: «Dopo la morte mille Budda gli tenderanno le mani per liberarlo dal timore e impedirgli di cadere nei cattivi sentieri» (10).

Che felicità! Come trattenere le lacrime di gioia sapendo che non uno o due, non cento o duecento, ma mille Budda verranno ad accoglierci con le braccia aperte?

Chi non ha fede nel Sutra del Loto sarà accolto dai guardiani dell’inferno che gli afferreranno le mani, come ammonisce il sutra: «...dopo la morte cadrà nell’inferno della sofferenza incessante» (11) . Che pena! I dieci re (12) lo giudicheranno e i messaggeri del cielo (13) che sono con lui dalla nascita denunceranno [i suoi atti malvagi].

Immagina quei mille Budda che tendono le braccia verso i discepoli di Nichiren che ora recitano Nam-myoho-renge-kyo, come meloni o convolvoli che tendono i loro tralci sottili. I miei discepoli nel presente hanno potuto abbracciare questo sutra in virtù del forte legame formato con il Sutra del Loto nel passato e senza dubbio otterranno la Buddità nel futuro.

Non interrompere mai il legame con il Sutra del Loto nelle tre esistenze, attraverso nascita e morte del passato, nascita e morte del presente e nascita e morte del futuro, si chiama trasmissione dell’eredità del Sutra del Loto. Coloro che non credono nel Sutra del Loto e lo insultano «distruggono tutti i semi della Buddità in questo mondo» (14) ; essi non ricevono l’eredità della Legge fondamentale della vita perché hanno distrutto il seme per divenire Budda.

In generale, che i discepoli di Nichiren, preti e laici, recitino Nam-myoho-renge-kyo in itai doshin (15) , senza alcuna distinzione fra di loro (16) , uniti come i pesci e l’acqua, questo si chiama eredità della Legge fondamentale della vita. Se è così, anche il grande desiderio di kosen-rufu potrà realizzarsi. Ma se fra i discepoli di Nichiren c’è qualcuno in itai ishin, sarebbe come uno che distrugge il suo castello dall’interno.

Io, Nichiren, ho cercato di risvegliare tutto il popolo giapponese alla fede del Sutra del Loto in modo che potesse condividerne l’eredità e ottenere la Buddità, ma invece mi hanno perseguitato in ogni modo e infine mi hanno esiliato in questa isola. Tu hai seguito Nichiren nonostante tutto e hai incontrato delle persecuzioni. Questo pensiero mi addolora profondamente.

L’oro non può essere bruciato dal fuoco né corroso e spazzato via dall’acqua, mentre il ferro è vulnerabile al fuoco e all’acqua. Una persona saggia è paragonabile all’oro, uno sciocco al ferro. Tu sei come l’oro puro perché abbracci «l’oro» del Sutra del Loto. Un brano del sutra dice: «Sumeru è la più alta di tutte le montagne; allo stesso modo il Sutra del Loto [è il alto di tutti i sutra]» (17) . E dice anche: «[La fortuna di un credente] non può essere bruciata dal fuoco né corrosa dall’acqua» (18) .

Non è dovuto alla relazione karmica formata nel passato se ora sei diventato discepolo di Nichiren? Certamente i Budda Shakyamuni e Taho lo sanno. Le parole del sutra «vita dopo vita nacquero insieme ai loro maestri nella varie terre di Budda» (19) non possono essere false.

Finora nessuno mi aveva fatto una domanda sulla trasmissione dell’eredità della Legge fondamentale della vita. È ammirevole, ammirevole! Comprendi bene ciò che ho spiegato dettagliatamente in questa lettera. Pratica solo Nam-myoho-renge-kyo, l’eredità trasmessa da Shakyamuni e Taho al bodhisattva Jogyo.

La funzione del fuoco è bruciare e dare luce. La funzione dell’acqua è lavare la sporcizia. La funzione del vento è spazzar via la polvere e soffiare la vita nelle piante, negli animali e nell’uomo. Quella della terra è far crescere l’erba e gli alberi, e quella del cielo è provvedere alla pioggia. Anche i cinque caratteri di Myoho-renge-kyo operano così: sono le funzioni benefiche dei Bodhisattva della Terra. Il Sutra del Loto dice che il bodhisattva Jogyo deve apparire adesso per propagare questo insegnamento nell’Ultimo giorno della Legge, ma questo è accaduto realmente? Che il Bodhisattva Jogyo sia già apparso o no, Nichiren ha già cominciato la propagazione.

Sii fermamente deciso a risvegliare il grande potere della fede e recita Nam-myoho-renge-kyo con una mente corretta fino al momento della morte. Non cercare assolutamente un altro modo per ereditare la Legge fondamentale della vita; questo è il significato di «I desideri terreni sono Illuminazione» e di «Le sofferenze di nascita e morte sono nirvana». Senza l’eredità della fede, sarebbe inutile abbracciare il Sutra del Loto. Avrei molte altre cose da chiarire.


Rispettosamente

Nichiren, lo Shramana del Giappone.

11 febbraio 1272









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NOTE:
1. I cinque caratteri: negli scritti del Daishonin spesso Myoho-renge-kyo sta per Nam-myoho-renge-kyo.
2. Hokke gengi, vol. 7.
3. Legge del Loto: la legge di simultaneità di causa ed effetto.
4. Tendai hokkeshu gozu homon yosan, vol. 5.
5. Yin e yang: i due princìpi universali dell’antica filosofia cinese. Yin è il principio negativo, scuro, femminile; Yang è il principio positivo, chiaro, maschile. Dalla loro combinazione dipende la natura di tutte le cose.
6. Cinque pianeti: Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. I pianeti più esterni non erano ancora stati scoperti.
7. Vera natura: letteralmente, natura della Legge (hossho), la vera natura immutabile o natura di Budda, presente in ogni essere e in ogni fenomeno.
8. Maka shikan, vol. 5.
9. Dal punto di vista del Buddismo di Nichiren Daishonin, quando si parla di Shakyamuni s’intende Nichiren Daishonin, il Budda originale di kuon ganjo. Quando si parla del Sutra del Loto ci si riferisce al Gohonzon, l’oggetto di culto del vero Buddismo.
10. Sutra del Loto, cap. 28.
11. Ibidem, cap. 3.
12. I dieci re dell’inferno: figure simboliche della tradizione religiosa popolare. In Cina l’inferno era rappresentato come un tribunale dei demoni in cui i morti erano processati per le loro azioni malvagie.
13. Messaggeri del cielo: Dosho (stessa nascita) e Domyo (stesso nome). Si diceva che questi due messaggeri stessero sulle spalle di ogni persona osservando tutte le sue azioni. Sono una metafora che indica le funzioni della legge di causa ed effetto.
14. Sutra del Loto, cap. 3.
15. Itai doshin: diversi corpi, uguale mente. Itai ishin: diversi corpi, diversa mente (o fede).
16. Letteralmente: senza alcun pensiero di me o degli altri, di questo o di quello. Non si tratta di una negazione dell’individualità, ma del superamento del divario fra persona e persona, che sorge dall’egoismo e dalla sfiducia.
17. Sutra del Loto, cap. 23.
18. Ibidem.
19. Ibidem, cap. 7.


Shoji Ichidaiji Kechimyaku Sho
Gosho Zenshu, pag. 1336
Scritto l’11 febbraio 1272, a 51 anni, da Sado
Destinato a Sairen-bo Nichijo


CENNI STORICI - Nichiren Daishonin scrisse questa lettera l’11 febbraio 1272, quando ancora viveva nel tempietto del cimitero di Tsukahara, sull’isola di Sado, dove era stato esiliato l’anno precedente. La lettera è indirizzata a Sairen-bo Nichijo, che in origine era un prete della setta Tendai. Circa un mese prima, il 16 e il 17 gennaio, Nichiren Daishonin aveva affrontato in un dibattito pubblico i preti dell’isola di Sado, dimostrando la correttezza dottrinale del suo insegnamento.
È probabile che Sairen-bo, esiliato a Sado per motivi a noi sconosciuti, forse per dei contrasti con le autorità, abbia deciso di diventare discepolo del Daishonin dopo aver assistito al dibattito di Tsukahara.
La setta Tendai, che aveva il proprio centro a Kyoto, al tempio Emyaku sul monte Hiei, era la massima scuola di filosofia buddista, ma la sua influenza sulla società del tempo si era notevolmente indebolita a causa dei continui e aspri contrasti con le sette rivali; in ogni caso, le profonde dottrine della scuola le assicuravano ancora un certo prestigio e il tempio del monte Hiei era pur sempre considerato il centro della cultura buddista in Giappone. Sairen-bo, che negli anni successivi ottenne il perdono dalle autorità e fondò un tempio chiamato Honkoku, poneva delle profonde domande sulla teoria buddista e Nichiren Daishonin rispose con alcuni scritti che rivestono una grande importanza. I principali sono L’Illuminazione delle piante, La vera entità della vita, La preghiera e L’eredità della legge fondamentale di vita e morte.
Questo Gosho è uno scritto breve, ma denso di significato, sia teorico che pratico. Probabilmente per Sairen-bo, uno studioso che conosceva a fondo i testi e aveva meditato a lungo sulle complesse teorie della scuola Tendai, era relativamente facile da capire.


lunedì 25 gennaio 2010

Il fascino del buddismo



- discorso di Raimon Panikkar -


Un bel giorno, di buon mattino, un giovane principe che non era delle Asturie né della casa di Davide, ma di un piccolo clan che viveva a fianco delle montagne più alte del mondo da una parte e la piana del Gange che già da mille anni era un punto d'incontro di civiltà dall'altra, dopo anni di lotta e di dubbi, (non oltre la metà del VI secolo a.C.) fece un colpo di testa e andò a prendere Kanthaka, il suo grande cavallo bianco preferito, e Channa, il suo servitore personale, per uscire dalle porte del castello del regno di suo padre lasciando un bambino piccolo (suo figlio) e la principessa (la sua sposa), per provare a risolvere i problemi che fin dall'età di sei anni lo tormentavano. Passato il fiume che segnava il confine del suo regno e di quello di suo padre, si liberò anche del servitore e del suo cavallo bianco preferito, si cambiò d'abito, prese una ciotola da mendicante e si incamminò, senza sapere dove andare.


Una predisposizione precoce

Fin da quando il bambino aveva sette anni, suo padre s'era reso conto che il figlio, nato con tutti gli auspici per essere un grande re che avrebbe rivoluzionato il mondo dei piccoli regni del nord dell'India, non aveva troppa voglia di utilizzare i poteri e i mezzi che aveva. Gli costruì un palazzo di primavera, un altro d'autunno e un altro d'inverno. Nel palazzo di primavera ci mise tutto quel che potrebbe desiderare un giovane adolescente. In quello d'inverno gli diede tutti i tipi d'insegnamento che i pandit del suo regno gli potevano dare, e in quello d'autunno gli mise a disposizione l'esperienza degli anziani del suo clan. Sembrava però che niente lo soddisfacesse. Aveva in mano la possibilità di utilizzare tutti i mezzi che permette il possesso di un regno. Avrebbe potuto cambiare il mondo se così avesse voluto, cambiare le cose se lo avesse ritenuto giusto. Ma sembra che disprezzasse tutte le agevolazioni del potere come un mezzo per fare il bene. E, come più tardi egli stesso darà ad intendere, rinunciò ad utilizzare il potere; e come più tardi anche un altro giovane, più o meno della stessa età, dirà «lascia che le pietre siano pietre e non volerle cambiare in pane; rispetta le cose e non utilizzare il tuo potere, nemmeno per fare il bene». E quel giovane di 29 anni che aveva visto (sembra) un vecchio, un malato, e un uccellino che portava nel becco un verme che non si poteva liberare e che più tardi si imbatté in un morto e in un funerale (malgrado suo padre, che lo stimava tanto, volesse evitargli le pene dell'esistenza), se ne andò senza sapere dove andare, ruppe i legami, fece il colpo di testa, lasciò correre tutto, disprezzò il potere, le occasioni e superò quello che in seguito lui stesso, quando stava sotto un albero, vide: la tentazione dei mezzi. Utilizzare i mezzi, il potere, per fare cose buone.


La ricerca

Trovò un primo maestro che lo introdusse nel mondo del monachesimo brahmanico del suo tempo e, con zelo di novizio, cominciò a seguirlo finché non s'accorse che quello non era il suo maestro. Lo lasciò perdere e ne andò a cercare un secondo, e poi un terzo. E si rese anche conto che qualsiasi sequela di un maestro non gli andava troppo bene. Quel giovane principe, che nascondeva la sua origine principesca nel seguire una strada, sembrava un po' ottuso, tanto da non sapere quale fosse. Continuò per sei anni a seguire gli insegnamenti di questi tre maestri e, con zelo di convertito, arrivò agli estremi, diminuendo ogni giorno i granelli di riso che mangiava finché, raccontano le scritture, lo sterno gli si vedeva da dietro, le costole erano trasparenti, ridotto in pratica a niente.

Attraversando un fiume, un giorno si imbatté in una bella ragazza, di nome Sujata, che in seguito tutti i canoni hanno ricordato, che gli diede da mangiare, mossa probabilmente a compassione. I cinque discepoli che alla fine di questo periodo lo accompagnavano, scandalizzati che accettasse da mangiare dalle mani di una graziosa ragazza, lo abbandonarono e si trovò solo (perché anche Sujata, dopo avergli dato da mangiare sparì). Continuò da solo, però capì che ogni estremismo ascetico è controproducente e che né il palazzo del re, né la capanna del povero erano per lui quello che cercava. Ma non sapeva quello che cercava, sapeva soltanto quello che non voleva: non voleva essere re, non voleva essere monaco, non voleva il potere, non voleva essere un rinunciante.


Il risveglio

Smise dunque d'essere sannyâsi e continuò il suo peregrinare nella zona del Gange; passando per una delle capitali del suo tempo, Pâtaliputra, andò a stabilirsi in un luogo che oggi porta una parte del suo nome, Bodh-Gaya, e là, sotto un albero, la ficus religiosa, albero sacro della tradizione brahmanica, si fermò, tentando di ricollegare il mistero della vita, il mistero della morte, l'ingiustizia della povertà, la realtà del divino, il passato, il presente, e quando stette completamente quieto s'accorse di poter oltrepassare anche l'ordine temporale e vide anche il futuro. Là, dice la tradizione, stette a lungo immobile, doveva ancora superare la terza tentazione, dopo aver resistito alla tentazione di Mâra: la tentazione di fare il bene, la tentazione di convertirsi in un propagandista, in un predicatore.

Brahmâ gli si accostò e gli disse: «Siccome ora hai già ottenuto la realizzazione, trasmettila anche agli altri» ed egli rispose di no, che non sarebbe servito trasmettere una cosa già fatta e digerita, e un messaggio idiosincratico, se gli uomini non avessero fatto l'esperienza personale e non fossero passati per là dove era passato lui. Voler salvare il mondo è la grande tentazione, voler salvare se stessi era il gran pericolo. Non fare niente era impossibile, fare piccole cose non lo convinceva. Fare tutto era quello cui aspirava. E quel giovane di circa 35 anni ricordava il passato, vedeva il presente e ancora non sapeva che fare. Continuò il suo peregrinare, camminò per circa 600 chilometri al di sopra del Gange, sentiero molto pianeggiante dopo che la stagione delle piogge era passata, e là, in un luogo dove il Gange, che andava verso l'ovest, per uno di quei capricci della natura che gli uomini interpretano in maniera differente, risale verso il nord, verso la propria sorgente, verso l'Himalaya e si converte perciò in un luogo sacro, là, forse mille anni prima che egli nascesse era stata fondata la città più santa della tradizione brahmanica, Vârânasî, fra i fiumi Asi e Varuna, affluenti del Gange.


Il sermone di Benares

Procurò di evitare la città, ormai non voleva vedere uomini santi, non voleva più conoscere il centro del brahmanesimo, e si ritirò un poco più verso il nord, prima di arrivare alla confluenza del Varuna col Gange, a un parco popolato di cervi. E là, a Sarnath, il caso volle che ritrovasse i cinque monaci che erano stati suoi discepoli e che aveva lasciato scandalizzati quando avevano visto che riceveva da mangiare da una ragazza. E allora, avendo superato la tentazione del santo, che è quella di fare il bene, la tentazione del politico, che è quella di utilizzare anche i mezzi per fare il bene, la tentazione del monaco, che è quella di rinunciare a tutte le cose per sentirsi bene e giustificato; allora, in quel parco dei cervi chiamato Îsipatana, riunì quei cinque monaci che aveva ritrovato e disse loro: «Questi due estremi si devono evitare. Quali sono questi due estremi? L'uno è ricercare e desiderare il piacere. Questo viene dall'attaccamento, è volgare, non è nobile, non porta alcun profitto, e conduce a rinascere. L'altro estremo è la ricerca dell'ascetismo, dello spiacevole, della sofferenza, della rinuncia, ed è ugualmente penoso e non porta alcun profitto».

Questi i due estremi che si devono evitare e proseguì: «Il Tathâgata (nome che non si sa se si dava egli stesso o gli diede la tradizione, ma il testo pâli lo riporta così) invece evita questi due estremi e cammina per la via di mezzo che è una via luminosa, bella e intelligibile, che è una via piena di serenità, che porta alla pace, alla conoscenza, alla illuminazione, al nirvâna. E qual è, o monaci, (si rivolgeva ai cinque che l'ascoltavano) questa via di mezzo che porta alla pace, alla conoscenza, al risveglio, al nirvâna? È questa o monaci la via di mezzo: questa è la nobile verità del dolore».

La parola che egli usò, e che è stata tradotta in mille maniere diverse, duhkha, può significare sofferenza, inquietudine, disagio, essere infelice, essere povero, essere miserabile. E si può assumere nel suo significato più originario, accorgendosi che il suo opposto è sukha, che vuol dire benessere, tranquillità, pace... e all'interno di una civiltà agricola i contadini del suo tempo sapevano che quando il carro dei buoi è bene ingrassato e le strade non hanno troppe buche, le cose vanno sukha, agevoli. Quando il carro dei buoi scricchiola perché gli manca il grasso, le strade son piene di buche, il carro fa rumore e allora è duhkha, non ha funzionato agevolmente, in maniera scorrevole. Proferì dunque questo discorso fondamentale di Vârânasî.

«Questa è la nobile verità del duhkha, dell'inquietudine, del dolore, della sofferenza della condizione umana: la nascita è dolore, invecchiare è doloroso, la malattia è sofferenza, la morte è dolorosa, il contatto con ciò che è spiacevole è doloroso, non ottenere quel che si desidera causa dolore, gli skandha (i cinque aggregati coi quali ci poniamo in contatto con la realtà come altrettante finestre della conoscenza) sono dolore».

«Questa è, o monaci, la nobile verità dell'origine del dolore, la sete, il desiderio che porta a cercare il piacere, il quale scatena la passione, e che cerca la soddisfazione qua e là, la sete di piacere, il desiderio di esistere e quello di non esistere. Questa è la nobile verità della cessazione del dolore, la soppressione completa della sete, la sua distruzione, lasciandola correre, abbandonandola, essendone liberati e standone distaccati. Questa è, o monaci, la via che conduce all'estinzione del dolore, questo è l'ottuplice sentiero (le otto strade, ashtângamârga), cioè la retta visione».... Traduco con retta ciò che si potrebbe chiamare serena, equilibrata, completa, perfetta, samyak, da cui viene anche armonia, la visione armonica. Diciamo dunque: La visione corretta, l'intenzione corretta, l'azione o condotta corretta, i mezzi o genere di sforzo appropriato, l'attenzione come ci vuole e concentrazione necessaria. Ciascuna di queste parole si potrebbe tradurre in maniere differenti e si dovrebbe spiegare in dettaglio, ma continuiamo con il testo.

«Finché questa triplice conoscenza e questa intuizione con le sue dodici divisioni non sono state purificate con le quattro nobili verità; fino allora, o monaci, in questo mondo con i suoi dèi, con Mara, con Brahmâ, con gli asceti, i bramini, gli spiriti, gli uomini, gli animali e con tutte le cose, io non ho ottenuto l'illuminazione completa e suprema». Queste sono le quattro nobili verità, che formano la pietra angolare e il punto d'unione di tutta questa tradizione che per venticinque secoli ha contribuito come poche altre a dare al mondo, non soltanto una, ma molte filosofie, molte civiltà e tutto un sentiero di vita.


Gautama, il Buddha

Il Buddha, chiamato così dai suoi discepoli come colui che ha conseguito la pienezza della buddhi, della conoscenza, del risveglio, è il principe che ora ha già quasi una quarantina d'anni, forse 38 o 39, quando comincia ad essere seguito da un centinaio di discepoli. Ma egli non vuol fondare una religione, non vuol fondare fin dall'inizio neppure un ordine monastico, non ha lasciato la casa paterna per salvare il mondo, non ha voluto discepoli che lo seguissero perché ha qualcosa da dire loro, egli vuol vivere e ha scoperto una sola cosa: ha scoperto che al mondo c'è dolore; ha scoperto l'origine di questa sofferenza, ha scoperto che questa sofferenza può cessare e ha trovato la strada. E la strada complessa di queste otto dimensioni che portano alla cessazione del dolore, della sofferenza, all'appagamento di ciò che molte volte è stato tradotto come desiderio, ma che la parola tanto in pâli quanto in sanscrito vuol dire semplicemente sete; la sete di esistere, la sete di non esistere, la sete di voler essere perfetto, la sete di voler arrivare da qualche parte, l'inquietudine di non voler stare nel proprio posto, il desiderio di volere qualsiasi cosa. Ora, trascendere la volontà, questo non comprese Nietzsche, non è voler non avere volontà. Durante quasi una quarantina d'anni quest'uomo continua a vivere nelle pianure gangetiche del nord dell'India e pian piano la gente gli si riunì e gli si raggruppò attorno. Nella tradizione di quei tempi chi seguiva un uomo spirituale o un maestro si chiamava bhikkhu, monaco, sannyasi, sadhu, rinunciante.

Gôtama parla mentre cammina e i suoi discepoli si impregnano di quello che egli va dicendo: «Così come il vento soffia davanti e dietro e fa muovere le foglie del cotone, così la vera e inesauribile gioia mi sta muovendo, e in questa maniera compio tutte le cose». Che vuol dire essere uomo? Essere uomo vuol dire, secondo quel che ci dirà uno dei suoi discepoli, partecipare al festival gioioso di tutta l'esistenza. «Il profumo di un fiore non viaggia contro la direzione del vento, ma la fragranza di un uomo buono va anche contro la direzione del vento; un uomo buono penetra le quattro direzioni». Egli è molto convinto di quello che in seguito la tradizione commenterà: «ll santo non lascia tracce, è come il volo di un uccello, non lascia orme. Perciò è tanto difficile seguirlo».

Quest'uomo entusiasma. Discepoli lo seguono da tutte le parti. Anche le donne lo vogliono seguire, ed egli, che aveva fatto quella eccezione con Sujata, dice di no. Ma Ananda, il monaco più stimato da lui, dice al maestro che le accetti e allora egli le accetta. Ma non ha alcuna pretesa né di formare una religione, né di formare una setta, né di riformare il brahmanesimo, né di creare niente. Vuol vivere la propria vita, non pretende niente, non vuole dare neppure un nome alla sua comunità che sempre più si va formando. Quando muore, ottantenne, i discepoli s'accorgono che non hanno un luogo, che non sanno niente, che niente è regolato. Che cosa è accaduto? Allora, tre mesi dopo la sua morte, 500 anziani convocano il primo concilio del mondo buddista per vedere che cosa fosse capitato. E restano sorpresi nell'accorgersi che sì, erano capitate molte cose, che c'era stata una critica feroce alla spiritualità induista e brahmanica, che si erano costituiti gruppi che vivevano la vita del sangha o della comunità, che avevano preso spontaneamente come maestro uno che diceva soltanto di aver visto la realtà delle cose e la differenza che c'è tra loro.


Nasce il buddismo

In questo concilio si configurano due partiti. Gli uni sono quelli che cantano e gli altri sono quelli che stanno in silenzio. Questa è l'origine di quello che in seguito verrà chiamato un movimento, e che si chiama religione, che porta il nome di buddismo, e che ha, come tutti gli «ismi», un alto grado di astrazione. Quest'uomo non pretende d'essere profeta, non reclama nessun'autorità speciale, non si dice inviato da nessuno, evita sistematicamente il nome di Dio e quando una volta Râdha, un monaco, gli chiede di dire qualcosa di Dio gli dice: «Oh Râdha! Tu non sai quello che stai domandando, non conosci i limiti della tua domanda, non sai quello che domandi. Come vuoi che io ti risponda!». E nasce così quello che oggi noi, con questa facilità che abbiamo di appioppare etichette alle cose, chiamiamo buddismo o, meglio ancora, tradizioni buddiste, perché ce n'è sicuramente più d'una dozzina, ognuna con le proprie filosofie. Ma il Buddha non vuole niente di ciò. La sua via mediana non vuol essere né mondana, né religiosa, nel senso che a quei tempi s'intendeva per religione; vuol essere la via di mezzo, dell'equilibrio, dell'armonia, dell'equanimità, della serenità.

Una madre addolorata lo va a trovare disperata perché sua figlia era morta, volendo un miracolo o sperando una consolazione. E Buddha la riceve, la guarda e le dice: «Mi accontento di poche cose». «Domandami qualsiasi cosa!» dice Kisâ Gautamî. «Portami tre granelli dì riso (o una manciata di semi di senape). Però valli a cercare in quella casa dove non ci sia mai stata alcuna disgrazia come la tua, dove non ci sia mai stato alcun dolore». E la giovane madre disperata, credendo che la cosa fosse relativamente facile, se ne va a cercare i tre granelli di riso e non trova casa che la morte prematura non abbia visitato. E torna dal Buddha dicendo: «Perché io volevo essere tanto speciale, perché misconoscevo la condizione umana? Perché non mi accorgevo che quello che io stavo patendo alla mia maniera è quello che ho trovato in tutte le case dove chiedevo un granello di riso? Mentre io credevo che non ci fosse stato alcun dolore, ho trovato che in tutte le case ce n'è stato. Grazie!». Più tardi entrò nell'ordine e divenne un arhant.

Senso comune! Non parla di Dio, non parla di religione, non vuol consolare con sentimentalismi, non dà spiegazioni. I discepoli della seconda generazione che lo seguono sono più intellettuali. Vogliono dottrina e soluzioni teoriche: Quel che io predico è come il caso di un uomo al quale hanno tirato una freccia e ora voi mi domandate che io continui la discussione: perché gli hanno tirato la freccia? E chi erano i suoi vicini? E chi ha visto il colpevole? E dov'è fuggito colui che l'ha tirata? Tutte discussioni teoriche. E intanto l'uomo ferito dalla freccia è morto, perché in quel momento l'unica cosa importante era estrargli la freccia dal corpo senza perdere tempo investigando le cause, domandando le ragioni, inseguendo il colpevole, cercando la giustizia, facendo il filosofo, cercando soluzioni. Prassi, azione immediata, spontaneità: estrarre la freccia dal corpo dell'uomo ferito, dal corpo dell'umanità gravemente ferita.


Nobile silenzio

Il Buddha parla di silenzio sacro, utilizzando la stessa parola di quando, nel giardino vicino a Vârânâsi, egli parlava delle quattro nobili verità e del nobile silenzio. Ma il nobile silenzio non consiste nel tacere perché non si dice tutto quello che si avrebbe da dire o perché si vuol nascondere il segreto e la pietra filosofale che si è trovata. Il nobile silenzio è silenzio perché non ha niente da dire, e siccome non ha niente da dire non nasconde niente, né dice niente, né tace, ma placa le inquietudini che potrebbero sorgere da noi. Se domandiamo perché, è perché cerchiamo di trovare una risposta, ma questa risposta, a sua volta, genera un altro perché. Finché non distruggiamo la radice che ci fa domandare il perché, semplicemente finché domandiamo, non sorgerà la risposta adeguata. Ogni risposta è sempre informazione di seconda mano, risponde ad un problema che ci siamo formati, risponde a una domanda, non la risolve, non la dissolve, non fa che la domanda non sorga più.

Il mondo di Buddha è il mondo della spontaneità, della libertà, dell'estrarre la freccia senza chiedersi il perché, non perché non ci sia, ma perché qualsiasi domanda è un modo di far violenza all'esistenza, è domandare quel che c'è dietro, è fare quel che fanno le bambine quando si domandano che cosa c'è dentro la bambola e allora la rompono. E questa non è la cosa peggiore, il peggio è che non giocano più con la bambola che hanno rotto. Quando cerchiamo le cause non lasciamo più che gli effetti ci rallegrino la vita. Questo è lo spirito del buddismo. Tutto il resto è sorto da quest'uomo che non voleva niente, che non voleva fondare niente, che non voleva nemmeno riformare il brahmanesimo.


Lo spirito del buddismo

Io ricordo che relativamente pochi anni fa (gli anni 50) a Sarnath, lo stesso luogo dove nacque questo grande movimento, io domandavo a un monaco hindu, buddista theravada molto amico mio, (l'editore del Tripitaka in hindi e che in seguito diventò rettore dell'università di Nalanda) come mai in India non ci fossero buddisti, come mai in tutta l'India, la patria del Buddha, il buddismo come religione non esistesse più. E il bhikkhu mi guardava e mi diceva: «Ah sì? Non ci sono buddisti?». E io mi rimangiavo la domanda. Diciamo che non ci sono buddisti perché non c'è gente che ha firmato per il partito buddista, perché non c'è gente che si dichiara buddista, perché il buddismo come religione in India non esiste. Abbiamo perduto ormai lo spirito del vero buddismo.

L'India non ha buddisti, secondo le nostre statistiche, e secondo le nostre classificazioni non ci sono buddisti in India. E l'unico monaco buddista che c'era rimaneva sorpreso che io fossi ancora tanto stupido da chiedergli se in India ancora ci fossero o non ci fossero buddisti. O si prende sul serio quello che le tradizioni umane ci dicono dal punto di vista più profondo e più reale, oppure ne facciamo un'ideologia, un partito politico, o anche una religione. E certamente i buddisti delle statistiche classificatrici si trovano tutti fuori dell'India, eccetto forse i tre milioni di neo-buddisti del Dr. Ambedkar, i quali per ragioni sociali e politiche, per superare la schiavitù delle caste moderne, si stanno convertendo al buddismo, stanno accettando il buddismo come una delle grandi religioni, per potersi liberare dall'ignominia dei fuori casta e acquistare una certa identità. Vi si stanno verificando allora conversioni in massa al buddismo, ad un buddismo che farebbe sorridere anche il Buddha.

È prendendo rifugio nel Buddha, come uno dei tre gioielli (sangha e dhamma sono gli altri due) che si diventa buddisti. Ma prendere rifugio nel Buddha come ho fatto io, non vuol dire abiurare il cristianesimo o l'induismo o altro. Perché dobbiamo fare tutto sempre secondo le nostre categorie? Se l'induismo non ha un fondatore, il buddismo ne ha uno, benché il Buddha non fondi niente, dunque è piuttosto un simbolo. Egli che sorride quando gli si porge una domanda, egli che tace quando qualcuno fa una cosa cattiva.


L'essenza del buddismo

Il Buddha ormai vecchio si trovava nel nord dell'India; lascia l'India centrale perché ha sentito dire che alcuni fratelli maltrattavano e disprezzavano un monaco che aveva preso una malattia repellente. Gôtama va laggiù, lo cura, e poi dice ai monaci: «Monaci, a me mi avreste curato! Quello che fate a qualsiasi uomo, lo fate a me». Questo succedeva più di quattro secoli prima che alcune parole simili fossero state pronunciate da un giovane rabbi di un'altra tradizione! Parlare dunque del buddismo implica parlare con una certa devozione. Il Buddismo non permette di farne soltanto un'ideologia, di spiegarne soltanto alcune dottrine, siano di filosofia o di logica. C'è tutta un'ideologia buddista, indiscutibilmente, ma lo spirito, incluso quello del più acuto forse di tutti i logici della tradizione buddista, Nâgârjuna, è sempre guidato da ciò che lui stesso dirà che è l'essenza del buddismo. Così come l'induismo non ha essenza, il buddismo ne ha una, e secondo la tradizione mâhâyanica si può riassumere in una sola parola, parola difficile da tradurre e ancor più difficile da praticare: Mahakarunâ, la grande compassione, cum patire, patire insieme con tutte le cose che esistono, senza far discriminazioni di alcun tipo.

Scoprire il pathos della cosa stessa e condividerlo. Sunt lacrimae rerum, diceva Virgilio. Mahakarunâ, la grande karuna, la grande compassione, è dove la tradizione mâhâyana ha riassunto l'essenza del buddismo, ma per una ragione: non per lasciarmi sofferente, ma perché io ho realizzato le quattro verità fondamentali e so che c'è sofferenza, che questa sofferenza ha un'origine, ma che può cessare, e che c'è una via per uscirne. E per questa cessazione la tradizione buddista usa la stessa parola classica di tutto lo yoga. Buddha utilizza la parola nirodha, la cessazione del dolore corrisponde alla cessazione della corrente mentale, del fiume di pensieri, della TV interna che ci distrae e non ci permette di fruire della verità della vita. Yogas citta vrtti nirodhah dice il secondo degli Yogasutra di Patañjali: yoga è la cessazione dei processi della mente.

Qualsiasi approssimazione al buddismo che non arrivi a toccare queste fibre della compassione universale, di rinunciare, come diranno i bodhisattva, alla mia salvezza personale in favore di tutti gli esseri viventi che ancora forse hanno bisogno del mio aiuto, non ha capito niente di quel che voglia dire il buddismo. Un grande arhant (e qui stiamo dentro l'ironia delle due grandi tradizioni buddiste), avendo compiuto la propria vita terrena sale al nirvâna, al cielo meritato, e il suo grande desiderio è di vedere il maestro e di sapere dove il maestro vive. E sale per tutti i cieli del nîrvâna, e si potrebbero descrivere le apsara , le ninfe e le cose preziose che trova, fino ad arrivare al settimo cielo. Qui le porte sono aperte e grida e cerca, perché vuole vedere Gôtama, il Buddha. Non lo trova e grida, ed esce un'apsara, esce una ninfa, una fanciulla che lo guarda tutta stupita. Egli le dice: Cerco Sakyâmuni, l'Adhibuddha. Essa gli risponde: «Ma tu non sai quel che cerchi, il Sakyâmuni, il vero, il Buddha non è mai venuto qui, è sempre rimasto tra gli uomini e ci rimarrà finché l'ultimo essere senziente non sia arrivato al nirvâna».

Il posto del Buddha è tra coloro che soffrono, tra gli uomini. La grande compassione che fa sì che si possa essere un bodhisattva, fa che si rinunci alla propria salvezza per collaborare col resto degli esseri viventi alla liberazione dell'universo. Il voto del bodhisattva che fa il monaco della tradizione mahayâna, dopo cinque anni di preparazione come minimo, è la rinuncia a qualsiasi beneficio e merito personale, di non farci caso e di non capitalizzarlo, finché l'ultimo essere vivente non arrivi alla propria pienezza. E quando si vuol costruire tutto un sistema filosofico quel che si vuole è sbancare tutta la forza della logica per dimostrare, logicamente, che qualsiasi costruzione intellettuale, distrugge se stessa quando si vuol formulare. Questo è lo spirito del buddismo.


[Si ode il suono di una campanella]


Questa campanella, di origine buddista, perché i buddisti sono stati i primi ad utilizzare le campane, mi ricorda che devo terminare.

Grazie.




http://www.risveglio.net/testi/fascino.html

martedì 19 gennaio 2010

L'amore è cambiamento - Osho


Perché l'amore è così doloroso?

L'amore è doloroso perché apre la strada all'estasi. L'amore è doloroso perché trasforma: l'amore è cambiamento. Qualsiasi trasformazione è dolorosa perché occorre lasciare il vecchio per il nuovo. Il vecchio è familiare, sicuro; il nuovo è assolutamente sconosciuto. Ti muoverai in un oceano mai esplorato. Non puoi usare la mente con il nuovo come facevi con il vecchio; la mente è molto abile, ma può funzionare con il vecchio, non con il nuovo: ora è assolutamente inutile.

Per questa ragione nasce la paura; quando lasci il vecchio mondo - confortevole, sicuro - nasce il dolore. È lo stesso dolore che prova il bambino quando esce dal ventre della madre. È lo stesso dolore che prova il pulcino quando esce dall'uovo. È lo stesso dolore che prova l'uccellino quando prova a volare per la prima volta.

La paura dell'ignoto, l'insicurezza dell'ignoto, la sua imprevedibilità, ti spaventano moltissimo.

Dato che la trasformazione sarà dall'essere verso uno stato di non-essere, l'agonia è profondissima. Ma non si può avere l'estasi senza passare per l'agonia. Per purificare l'oro, esso deve passare attraverso il fuoco.

L'amore è fuoco.

È proprio a causa del dolore che l'amore procura, che milioni di persone vivono una vita senza amore. Anche loro soffrono, ma la loro è una sofferenza inutile. Soffrire per amore non è soffrire invano. Soffrire per amore è creativo: ti porta a livelli più alti di consapevolezza. Soffrire senza amore è un totale spreco, non ti porta da nessuna parte: continui a muoverti lungo il medesimo circolo vizioso.

L'uomo senza amore è narcisista, è chiuso. Conosce solo se stesso. Ma quanto può conoscere se stesso se non ha conosciuto l'altro? Solo l'altro può essere per lui uno specchio. Non conoscerai mai te stesso se non conosci l'altro. L'amore è fondamentale anche per la conoscenza di sé. La persona che non ha conosciuto l'altro in un rapporto profondo di amore, di intensa passione, di totale estasi, non potrà nemmeno sapere chi è, perché non avrà uno specchio in cui osservare la sua immagine.

La relazione è uno specchio e, più l'amore è puro, migliore e più nitido sarà lo specchio. Ma l'amore più alto richiede che tu sia aperto. Richiede che tu sia vulnerabile. Devi lasciar andare la tua armatura, ed è doloroso. Non devi stare sempre in guardia, devi abbandonare la mente e i suoi calcoli. Devi rischiare, devi vivere pericolosamente. L'altro può ferirti - è per questo che hai paura di essere vulnerabile. L'altro può rifiutarti - è per questo che hai paura dell'amore.

Il riflesso del tuo essere che scopri nell'altro potrebbe essere brutto - questa è la tua ansietà. Evita lo specchio. Ma non è che evitando lo specchio diventerai bello. Evitando la situazione, non puoi crescere. È necessario accettare la sfida.

Occorre entrare nell'amore. È il primo passo verso dio, e non può essere aggirato. Quelli che cercano di evitare lo spazio dell'amore, non raggiungeranno mai dio. È una necessità assoluta, perché diventi consapevole della tua totalità solo quando vieni stimolato dalla presenza dell'altro, quando la tua presenza viene rafforzata dalla presenza dell'altro, quando vieni aiutato a uscire dal tuo mondo chiuso, narcisista, e portato fuori sotto la volta infinita del cielo.

L'amore è un cielo, vastissimo. Essere in amore vuol dire mettere le ali. Ma naturalmente, il cielo infinito fa paura.

Inoltre lasciare andare l'ego è molto doloroso perché ci hanno insegnato a coltivarlo. Pensiamo che l'ego sia il nostro unico tesoro. L'abbiamo protetto, decorato, l'abbiamo lucidato in continuazione e, quando l'amore bussa alla porta, tutto ciò che ci occorre per innamorarci è mettere da parte l'ego: è doloroso, certo. È il lavoro di tutta la tua vita, è tutto ciò che hai creato, questo ego orrendo, questa idea che sei separato dall'esistenza.

È un'idea brutta perché non è vera. È un'idea illusoria, ma la società esiste, è anzi basata proprio su questa idea che ogni persona è una persona, non una presenza.

La verità è che al mondo non esistono persone ma solo presenze. Non ci sei, non esisti come ego, separato dal tutto. Sei parte del tutto. Il tutto ti penetra, il tutto respira in te, pulsa in te, il tutto è la tua stessa vita.

L'amore ti dà la prima esperienza di armonia con qualcosa che non è il tuo ego. L'amore ti insegna per la prima volta che puoi entrare in armonia con qualcuno che non è mai stato parte del tuo ego. Se puoi essere in sintonia con una donna, con un amico, con un uomo, se puoi essere in sintonia con il tuo bambino o con tua madre, perché non puoi esserlo con tutti gli esseri umani? E se essere in armonia con una sola persona ti dà tanta gioia, quale sarà il risultato se sarai in armonia con tutti gli esseri umani? Ma se puoi entrare in sintonia con tutti gli esseri umani, perché non anche con gli animali e le piante? Un passo porta al successivo.

L'amore è una scala: inizia con una persona, e finisce col tutto. L'amore è l'inizio, dio è la fine. Aver paura dell'amore, aver paura dei dolori della crescita che l'amore procura, vuol dire rimanere chiusi in una cella oscura.

L'uomo moderno vive in una cella oscura: è narcisista. Il narcisismo è l'ossessione più grande della mente moderna.

E poi arrivano i problemi, problemi senza senso. Ci sono problemi che sono creativi perché ti portano a un livello più alto di consapevolezza. Ci sono problemi che non ti portano da nessuna parte, ti tengono solo legato, ti tengono nel caos del passato.

L'amore crea problemi; puoi evitarli, evitando l'amore. Ma quelli sono i problemi essenziali! Bisogna affrontarli, viverli e passarci attraverso per andare oltre. L'unico modo per andare oltre, è di passarci attraverso. L'amore è l'unica cosa che valga la pena di fare. Tutto il resto è secondario - va benissimo se è di sostegno all'amore. Tutto il resto è solo un mezzo, ma l'amore è il fine. Quindi, per quanto sia doloroso, entra nell'amore.

Se non entri nell'amore - come hanno deciso molte persone - rimani intrappolato all'interno di te stesso. Allora la tua vita non è un pellegrinaggio, non è un fiume che va verso l'oceano; la tua vita è una pozza stagnante, sporca, e molto presto resteranno solo lo sporco e il fango. Per rimanere limpido, devi continuare a fluire. Il fiume rimane pulito perché scorre. Scorrere è il modo di rimanere sempre vergini.

Chi ama rimane vergine. Tutti gli amanti sono vergini. Le persone che non amano non possono rimanere vergini: si addormentano, diventano stagnanti, e prima o poi - più prima che poi - iniziano a puzzare perché non hanno nessun posto dove andare. La loro è una vita morta.

L'uomo moderno si trova in questa situazione, e per questo motivo nevrosi di ogni genere, follie di ogni genere, sono rampanti. Il disagio psicologico ha preso proporzioni epidemiche. Non è che alcuni individui siano psicologicamente malati: la realtà è che la terra nel suo complesso è diventata un manicomio. Tutta l'umanità soffre di una specie di nevrosi.

Questa nevrosi nasce dal tuo ristagnare, dal tuo narcisismo. Tutti sono stretti nell'illusione di avere un sé separato, e poi impazziscono. Questa follia è senza senso, è improduttiva, non creativa. Oppure si suicidano. Questi suicidi sono anch'essi improduttivi e non creativi.

Forse non ti uccidi prendendo del veleno o saltando dall'alto di una rupe o sparandoti, ma puoi suicidarti in modo molto lento, e questo è proprio ciò che accade. Pochissime persone si suicidano tutte di un colpo. Gli altri hanno scelto un suicidio lento, graduale: muoiono a poco a poco. Ma la tendenza al suicidio è diventata quasi universale.

Non è vita questa, ma la causa, la causa fondamentale, è che abbiamo dimenticato il linguaggio dell'amore. Non siamo più così coraggiosi da buttarci nell'avventura chiamata amore.

La gente è interessata al sesso, perché il sesso non è pericoloso. È il fenomeno di un momento, non occorre coinvolgersi. L'amore è coinvolgimento, è impegno. Non è un fenomeno del momento. Quando ha messo le radici, può durare per sempre. Può diventare un impegno che dura tutta la vita. L'amore ha bisogno di intimità; solo quando c'è intimità, l'altro diventa uno specchio. Quando ti incontri con una donna o un uomo a livello sessuale, in realtà non vi incontrate affatto, avete evitato l'anima dell'altra persona. Tu ne hai usato il corpo e sei fuggito, e anche l'altro ha usato il tuo corpo ed è fuggito. Non siete diventati abbastanza intimi da poter rivelare all'altro il vostro volto originario.

L'amore è il più grande koan Zen.

È doloroso, ma non evitarlo. Se lo eviti, perdi la più grande opportunità di crescere. Entra in esso, con tutta la sua sofferenza, perché grazie alla sofferenza arriva una grande estasi. Sì, c'è agonia, ma da questa agonia nasce l'estasi. Sì, dovrai morire come ego, ma rinascerai come dio, come buddha. L'amore ti darà il primo assaggio del Tao, del Sufismo, dello Zen. Ti darà la prima prova che dio esiste, che la vita non è priva di significato.

Quelli che dicono che la vita non ha significato sono quelli che non hanno conosciuto l'amore. In effetti stanno dicendo che nella loro vita è mancato l'amore.

Lascia che ci sia il dolore, lascia che ci sia la sofferenza. Passa attraverso la notte oscura, e arriverai a una bellissima alba. Solo nel grembo della notte oscura, il sole può evolversi. Solo attraverso la notte oscura arriva il mattino.

Il mio approccio qui è unicamente quello dell'amore. Ti insegno l'amore, solo l'amore e nient'altro. Puoi dimenticarti di dio: è solo una parola vuota. Puoi dimenticarti delle preghiere: sono solo riti che ti sono stati imposti da altri. L'amore è la preghiera naturale, non imposta da nessuno. Appare con te alla nascita. L'amore è il vero dio, non il dio dei teologi, ma il dio di Buddha, Gesù, Maometto, il dio dei Sufi. L'amore è una tariqa, un metodo per ucciderti come individuo separato e per aiutarti a diventare l'infinito. Scompari come goccia di rugiada e diventi l'oceano, ma per questo devi passare attraverso la porta dell'amore.

Certo, quando scompari come goccia di rugiada - e hai vissuto a lungo come goccia di rugiada - è doloroso, perché pensi: "Io sono questo, e ora questo sta scomparendo. Sto morendo". Non stai morendo, è l'illusione che muore. Ti sei identificato con l'illusione, è vero, ma l'illusione è sempre un'illusione. Solo quando svanisce, puoi vedere chi sei. Questa rivelazione ti porta alle vette più alte della gioia, dell'estasi, della celebrazione.


Osho

- da The Secret -

sabato 16 gennaio 2010

La cura




La cura - Franco Battiato


Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie,
dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via.
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo,
dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai.

Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d'umore,
dalle ossessioni delle tue manie.

Supererò le correnti gravitazionali,
lo spazio e la luce per non farti invecchiare.

E guarirai da tutte le malattie,
perché sei un essere speciale,
ed io avrò cura di te.

Vagavo per i campi del Tennessee
(come vi ero arrivato, chissà).
Non hai fiori bianchi per me?
Più veloci di aquile i miei sogni
attraversano il mare.

Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza.
Percorreremo assieme le vie che portano all'essenza.
I profumi d'amore inebrieranno i nostri corpi,
la bonaccia d'agosto non calmerà i nostri sensi.

Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto.
Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono.

Supererò le correnti gravitazionali,
lo spazio e la luce per non farti invecchiare.

Ti salverò da ogni malinconia,
perché sei un essere speciale,
ed io avrò cura di te...
Io sì, che avrò cura di te.

lunedì 11 gennaio 2010

L'eterna non-mente che trascende tutto

I Tarocchi Zen di Osho
68. Consapevolezza


Proveniamo dall'ignoto e continuiamo ad andare nell'ignoto. Torneremo di nuovo; siamo stati qui migliaia di volte, e saremo qui altre migliaia di volte. Il nostro essere essenziale è immortale, ma il nostro corpo, la nostra incarnazione, è mortale. Il nostro involucro, la nostra casa - il corpo, la mente - sono oggetti materiali. Si stancheranno, invecchieranno, moriranno. Ma la nostra consapevolezza, per la quale Bodhidharma usa la parola "non-mente" - e anche Gautama il Buddha usa la parola "non-mente" - è qualcosa che trascende il corpo e la mente, qualcosa che trascende tutto: quella non-mente è eterna. Prende forma, si esprime, e poi torna di nuovo nell'ignoto. Questo movimento dall'ignoto a ciò che è noto, e da ciò che è noto all'ignoto, continua per tutta l'eternità, a meno che non t'illumini. Allora questa è la tua ultima vita; il tuo fiore non tornerà più. Questo fiore, che è diventato consapevole di se stesso, non ha bisogno di tornare a vivere, perché la vita non è altro che una scuola in cui imparare. Questo fiore ha imparato la lezione; ora è oltre ogni illusione. Si allontanerà da ciò che è conosciuto e, per la prima volta, non raggiungerà l'ignoto, ma l'inconoscibile.

Osho Bodhidharma, the Greatest Zen Master Chapter 5


Commento:

La maggior parte delle carte del seme della Mente, sono immagini dallo stile di fumetti, o che rivelano un affanno, e questo perché l'influenza della mente nella nostra vita di solito si riduce o al comico, oppure all'opprimente. Questa carta di Consapevolezza invece presenta un'immensa figura di buddha. Egli si è espanso al punto da essere andato oltre le stelle, e sopra alla sua testa c'è un puro vuoto. Questo buddha rappresenta la consapevolezza che è a disposizione di tutti coloro che diventano Maestri della mente, e riescono a usarla nel ruolo di servitore che le si confà. Quando scegli questa carta, è un segno che in questo momento ti è accessibile una chiarezza cristallina, distaccata, radicata nella profonda quiete che dimora nell'essenza più intima del tuo essere. Non c'è alcun desiderio di una comprensione che parta dalla prospettiva della mente - la comprensione che hai è esistenziale, integra, in armonia con la pulsazione stessa della vita. Accetta questo dono immenso, e condividilo.

venerdì 8 gennaio 2010

I tre rifugi


del venerabile Ajahn Sumedho


Quasi tutte le tradizioni buddhiste prevedono il prendere rifugio nel Buddha, nel dhamma e nel sangha. Questi tre elementi costituiscono un punto focale per il nostro impegno e per le nostre riflessioni sulla pratica.


Il primo rifugio: il Buddha

Il primo rifugio è il Buddha, spesso raffigurato da un'immagine su un tabernacolo. Qualcuno si chiederà perché i buddhisti possiedono immagini del Buddha. Sono idoli che adoriamo? Hanno una sorta di potere divino? Niente affatto; sono immagini su cui riflettere.

Quando contemplate un'immagine del Buddha, vi rendete conto che è l'immagine di un essere umano composto, vigile e sereno. Sta di fronte al mondo e osserva le cose. È consapevole del mondo, ma non se ne lascia ingannare né intrappolare. Non è estatico e neppure depresso. Rappresenta la capacità dell'essere umano di trovarsi in una calma assoluta e di vedere le cose per come sono davvero, e dà alla mente un'ispirazione di grande esperienza. Quando contemplate un'immagine del Buddha, provate un senso di calma. Perciò, vivere con le immagini del Buddha è una cosa piacevole; sono oggetti assai piacevoli da tenere con sé.

È ovvio che, se ci contorniamo di sculture che raffigurano forti passioni di rabbia e di estasi, o che attirano ed eccitano le passioni dentro di noi, diverremo passionali ed eccitati. Diventiamo quello che osserviamo. Ciò che ci circonda esercita un influsso sulla nostra mente. A mano a mano che intensificate la meditazione, scegliete di porre intorno a voi oggetti che portano alla tranquillità, non all'agitazione.

Nei monasteri, i monaci e le monache, per tradizione, fanno ogni mattina un'offerta di candele, incenso e fiori al tabernacolo del Buddha. Anche quelle offerte sono fatte per riflettere. I fiori sono alcuni tra i doni più leggiadri che si possano fare, perché sono tra i prodotti più belli della terra. I fiori freschi abbelliscono qualunque luogo in cui si trovano; non sminuiscono né danneggiano mai alcunché. Nel buddhismo sono un simbolo di purezza mentale. Di solito, le immagini del Buddha lo mostrano seduto su un fiore di loto. Nel sudest asiatico, il fiore di loto cresce nelle paludi e negli stagni, sbocciando tra il fango e la melma. Si innalza al di sopra di tutto ciò e diventa un fiore magnifico. Quel fiore è come un essere umano morale. Un essere umano responsabile di ciò che fa è sempre una creatura magnifica da avere vicino a sé. Ovunque vada è il benvenuto; abbellisce, adorna. Al contrario, il mondo è ingombro di esseri umani egoisti, immorali e noncuranti, simili a erbe infestanti. Ecco perché il Buddha è seduto simbolicamente su un trono di loto: la saggezza del Buddha può provenire solo dalla purezza morale.

Gli esseri umani possono raggiungere qualunque livello. Possiamo vivere, come fanno molti, a livello istintivo del corpo, seguendo gli impulsi animali al cibo, al sonno e alla procreazione. Possiamo anche abbassarci al di sotto di quel livello ed essere ossessionati da desideri di bassa natura. Molti esseri umani vivono in questo modo. Non sono veramente umani; sono come spettri che vivono in un mondo crepuscolare di appetiti ossessivi e desideri insaziabili, come tossicodipendenti e alcolizzati. Oppure possono essere demoni, con un'energia malvagia che cerca di distruggere e ferire gli altri. Il solo fatto di possedere un corpo umano non significa che siate pienamente umani. Non è così facile. Il regno umano è totalmente intriso di mortalità, perciò essere umani implica anche l'aspetto mentale.

Solo quando decidiamo di assumerci la responsabilità della nostra vita diventiamo esseri umani a tutti gli effetti. Dobbiamo compiere lo sforzo di elevarci. Essere responsabili richiede fatica; non è qualcosa che avviene senza sforzo. Dobbiamo sceglierlo. Dobbiamo decidere di essere in quel modo e assumerci l'impegno e la fatica necessari. Viceversa, ci limiteremo a seguire gli impulsi istintivi che spesso sono autoindulgenti e di basso livello. Quando compiamo lo sforzo necessario, ci innalziamo a un livello superiore. Ecco cosa rappresentano i fiori e il loto.

Quando prendiamo rifugio nel Buddha, stiamo prendendo rifugio in ciò che è saggio. La parola "Buddha" è in realtà un termine indicativo dell'umana saggezza; significa "colui che conosce la verità" o "quello che conosce". Se dite di essere un buddhista, potete pensare di esservi convertiti a una religione, oppure potete pensare di essere qualcuno che sta prendendo rifugio nella saggezza. Per essere saggi, si riflette e si contemplano le cose. La saggezza c'è già. Non è qualcosa che si ottiene, ma qualcosa che viene usato. È sbagliato pensare che diventerete saggi meditando. La meditazione è un modo per imparare la saggezza che c'è già. Nella meditazione, contemplate e riflettete sul dhamma, o sulla verità del così com'è. Così facendo, state già usando la saggezza. La saggezza non è qualcosa che non possedete, ma qualcosa che forse non sempre usate, o di cui non siete sempre consapevoli.

Nei canti quotidiani nei monasteri, il Buddha è detto l'arahant, il sammāsambuddha. Sono termini pali che stanno per ciò che è veramente puro e illuminato. Sammāsambuddha significa colui che è illuminato perché conosce la sua vera natura. Arahant è una parola che sta per essere umano perfetto, essere umano che vede con chiarezza e non si lascia ingannare dalle apparenze e dai condizionamenti mentali.

Il Buddha è detto anche vijjācaraņasampanno, che significa perfetto nella conoscenza e nella condotta; non quindi sapere ciò che è giusto e comportarsi altrimenti. Di questi tempi, un gran numero di maestri agisce proprio in questo modo. Da una parte scrivono libri, insegnano e capiscono; le loro azioni, però, non si accordano alle loro conoscenze. Ma un Buddha è ciò che un Buddha conosce; vive in quel modo: vijjācaraņasampanno, perfetto nella conoscenza e nella condotta.

Un altro attributo del Buddha è lokavidū, che significa colui che vede il mondo, che conosce il mondo come è. Dov'è il mondo conosciuto dal Buddha? Quando contemplate la domanda: "Dov'è il mondo?", scoprirete che la risposta è la vostra mente. Di solito, però, non pensiamo al mondo in quel modo; lo identifichiamo con il pianeta. Guardate una carta geografica e vedrete che la Svizzera è azzurra e l'Inghilterra è rosa. Pensate che l'Asia, l'Australia e l'America siano il mondo, qualcosa che conoscete perché guardate una carta geografica o perché avete studiato storia e geografia. Ma il mondo reale è la vostra mente, e voi conoscete il mondo perché conoscete la mente. Osservando la mente, riflettendo su di essa, conoscete il mondo così com'è, come si presenta alla coscienza: le paure, i desideri, i punti di vista e le opinioni, le percezioni che vanno e vengono nella mente. Questo è il significato di lokavidū.

Il Buddha è sārathi, che significa auriga, colui che sta al posto di guida. Significa che quando prendiamo rifugio nel Buddha, ci lasciamo guidare da ciò che è saggio, non da ciò che è stupido e ignorante. Ci rivolgiamo alla nostra saggezza di Buddha che ci addestra. Aprendoci alla saggezza, ci alleniamo a vivere con rettitudine. Impariamo a essere di utilità e a non rappresentare un fastidio o una maledizione per il mondo. Nei regni celesti, il Buddha è il maestro (satthā) di tutti gli dèi, ed è anche il maestro di tutti gli esseri umani. Ciò significa che il Buddha addestra tutte le creature virtuose a vedere le cose nel modo giusto, a conoscere la verità.


Il secondo rifugio: il dhamma

Il Buddha può essere personificato e potete fabbricare immagini umane del Buddha, ma il rifugio successivo, il dhamma, non possiede alcuna qualità personale. Il simbolo che si usa per il dhamma è generalmente quello della ruota (dhammacakka). Dhamma significa verità, la verità del così com'è. Perciò il dhamma comprende ogni cosa, esseri umani, animali, demoni, angeli, tutti gli dèi, tutte le cose che si possono concepire o percepire, e anche la verità immortale. Il dhamma comprende ogni cosa: il conoscere, la verità, le condizioni, tutte le esperienze sensoriali, il vuoto e tutte le forme. Tutto è dhamma.

La meditazione è un modo per aprirsi al dhamma. Vi aprite alla verità. Nei nostri canti dedicati al dhamma, diciamo che esso è "visibile qui e ora" (sandiţţhiko), "senza tempo" (akāliko), "promotore dell'investigazione (ehipassiko), "guida alla liberazione" (opanayiko), "ciò che va sperimentato personalmente" (paccatam) e "realizzabile dal saggio" (veditabbo viññūhi). Sono parole che mettono in luce il qui e ora. Quando vi aprite alla verità, non cercate qualcosa in particolare, non vi concentrate su un oggetto, né vi chiedete: "È questa la verità?". Aprirsi alla verità significa aprire la mente, non concentrarsi su una cosa. Il prendere rifugio nel Buddha e nel dhamma ci riporta allo stato di attenzione vigile. Non cerchiamo di concentrarci su questo e sbarazzarci di quello; non ci facciamo intrappolare dall'abitudine alla condiscendenza e alla repressione. Quando ci apriamo, quando impariamo ad aprirci qui e ora, sperimentiamo la tranquillità, perché non stiamo cercando alcunché in particolare a cui attaccarci. Non corriamo più di qua e di là; stiamo interrompendo la nostra corsa frenetica. L'apertura al dhamma è la via che conduce alla tranquillità, e dobbiamo realizzarla di persona. Dobbiamo realizzare la verità per conto nostro; non aspettare che qualcun altro la realizzi per noi o ci dica cos'è.

Il Buddha e il dhamma non sono solo piccoli concetti graziosi su cui intonare canti; su di essi bisogna riflettere. Sono insegnamenti che esaminiamo e applichiamo alla nostra vera esperienza. Invece di pensare al Buddha come a un profeta morto duemilacinquecento anni fa, pensiamo che egli rappresenta la saggezza che esiste in ciascuno di noi e che ci colloca nel momento presente. Non è necessario andare a cercare il Buddha sull'Himalaya. Aprirsi al così com'è, ora, qui, in questo momento e in questo luogo, significa prendere rifugio nel Buddha e nel dhamma. Prendere rifugio non significa cercare qualcosa da qualche parte, ma aprirsi al così com'è, qui e ora. Prendere rifugio significa guardare le cose come sono realmente e non come desideriamo, romanticamente, che siano.


Il terzo rifugio: il sangha

Il sangha è la società, o la comunità dei virtuosi, di coloro che praticano, che usano la saggezza, che contemplano la verità. Quando prendete rifugio nel sangha, non vi rifugiate più nella personalità o nelle capacità individuali, ma in qualcosa di più vasto. Il sangha è di tutti e in esso la personalità non è più così importante. Che siate un uomo o una donna, che siate giovane o vecchio, colto o incolto, o qualsiasi altra cosa, nel sangha non ha più alcuna importanza. Il sangha è formato da chi pratica, da chi vive in modo retto, da chi contempla la verità e usa la saggezza.

Quando prendete rifugio nel sangha, siete disposti ad abbandonare le qualità personali, le esigenze e le aspettative che avete come individui. Abbandonate tutto ciò a beneficio del sangha, la comunità dei praticanti, avanzando verso la verità, realizzando la verità.


Rendere omaggio ai tre gioielli

Sono questi i tre rifugi, spesso designati come i tre gioielli. Sono gioielli inestimabili a cui rendiamo omaggio, e a cui, rendendo omaggio, ci apriamo. Il senso di devozione e di riguardo è un aspetto assai positivo dell'essere umano. Una persona che non prova rispetto per alcunché, che non prova né amore né gratitudine, è una persona la cui compagnia è assai sgradevole. Le persone che si lamentano, che criticano e che pretendono, le persone testarde e orgogliose, sono persone con cui non è piacevole stare. L'atteggiamento "Sono troppo in gamba, non mi inchinerò davanti a nessuno" è pura arroganza ed è un aspetto disdicevole degli uomini.

La pratica della devozione consiste nell'aprirsi, nel fare offerta di noi stessi inchinandoci. E' un movimento del corpo nel quale realmente offriamo alla verità noi stessi, questo corpo, questa forma umana. Abbassiamo il corpo a terra, mettendo ai piedi del Buddha ciò con cui ci identifichiamo, offrendoci alla verità.

Questo è il modo in cui interpretiamo la tradizione. Se volete, potete farne lo stesso uso. Se vi sembra un mucchio di roba inutile, non ve ne curate. Non siete costretti a farlo, potete servirvene o non servirvene. Dipende da voi. Imparare a usare quelle tradizioni richiede un certo sforzo, e farne un buon uso abbellisce la nostra vita. Ci dà grazia, stile e il senso della comunità come sangha. Diventiamo una cosa sola, non siamo più un gruppo di esseri singoli che fanno ciò che sentono o vogliono. Impariamo ad agire in conformità, in un atto di devozione, amore, gratitudine e rispetto.


Aprirsi alle convenzioni religiose

A volte, le persone appartenenti ad altre religioni si sentono a disagio con i simboli buddhisti. Non è necessariamente questione di orgoglio o di caparbietà, quanto di scarsa dimestichezza. In certi casi, le persone hanno la sensazione, usando i simboli buddhisti, di tradire i propri, probabilmente cristiani. Spero che il modo in cui ho presentato i tre rifugi sia un modo di guardare a ogni tradizione religiosa. Grazie a una comprensione siffatta, sappiamo come usare la tradizione buddhista o cristiana. Io vedo l'unità, l'integrità di tutto ciò. Non considero il buddhismo, come forma esteriore, l'unica via. Penso che ciò di cui si occupa, o dovrebbe occuparsi, la religione, è la verità o l'apertura nei confronti della verità. Tutto si confonde perché la gente se ne dimentica e rimane invischiata nella tradizione come se fosse fine a se stessa. Invece di usare la tradizione e le cerimonie per aprirsi, le utilizzano per aggrapparvisi.

Quando iniziate ad attaccarvi al buddhismo, non siete più aperti. Diventate buddhisti settari. Nel buddhismo ci sono diverse scuole, perciò potete diventare un buddhista mahāyāna, in contrapposizione a un buddhista hīnayāna, oppure un buddhista vajrayāna, o un buddhista Zen. C'è un'infinità di varianti nel buddhismo. In Gran Bretagna abbiamo di tutto: cristiani buddhisti, buddhisti cristiani, ebrei buddhisti, buddhisti ebrei, moderni buddhisti scientifici, buddhisti britannici, e così via. Poi, ci sono buddhisti che non sono buddhisti perché hanno rifiutato il Buddha e il sangha e accettano solo il dhamma: sono i dhammaisti.

L'attaccamento nutre tali separazioni; è divisivo. Qualsiasi cosa a cui vi attaccate diventa una setta o un culto. La tendenza settaria è uno dei grandi problemi dell'umanità, che sia religiosa, politica o d'altra natura. Quando la gente dice: "Il mio percorso è quello giusto e gli altri sono sbagliati", oppure "Il mio è il migliore, gli altri sono inferiori", quello è attaccamento. Anche se avete il meglio, l'attaccamento al meglio vi rende una persona ignorante, non illuminata. Potete avere il meglio di tutto e continuare a non essere illuminati.

Non intendo dare l'impressione che il buddhismo theravada sia la via migliore o l'unica via. Perché "migliore" e "unica" sono qualità a cui attaccarsi. Il buddhismo theravada è una convenzione, qualcosa a cui aprirsi, contemplare, imparare a utilizzare. Che vi piaccia o no, che vi offenda, vi irriti, ne siate entusiasti o indifferenti, prendete nota della condizione della mente, invece di prendere posizione a favore o contro. Allora potete pensarci su. Vi offre qualcosa da osservare in voi stessi. E vi offre l'opportunità di rivolgere l'attenzione alla verità.


° ° °

Domanda: Questo prendere rifugio nel Buddha-dhamma-sangha ha un aspetto marcatamente devozionale; però, da quanto ho letto, mi sembra che il buddhismo sia molto intellettuale, filosofico. Quanto è importante la devozione nella pratica, e che forma gli attribuite se, di fatto, non adorate e non credete in niente?

Risposta: Penso che per la maggior parte di noi la devozione derivi dalla pratica del dhamma, nella quale si rimuovono le illusioni della mente e si nutre più fiducia nel Buddha-dhamma-sangha. Non c'è bisogno di convincersi che esista qualcosa come il Buddha-dhamma-sangha per confidare in esso; non è un'invenzione idealistica. Quanto più vi spogliate dell'illusione, quanta più fiducia avrete in ciò che chiamiamo, per convenzione, Buddha-dhamma-sangha. Senza quella fiducia, non importa quanto meditate o quanto riflettete sulle cose; se non avete gettato le basi nei tre rifugi, il dhamma diventa una sorta di ideale da raggiungere in futuro, o un metodo di liberazione psicologica da applicarsi a situazioni diverse. In entrambi i casi, non è trascendente; non realizzate la realtà immortale trascendente. Se continuate a lavorare a livello dell'io, come persona, cercando di liberarvi dall'illusione, dalla paura o dal desiderio, potrete ricevere un aiuto per cavarvela nel mondo reale, nella società, ma non è una via trascendente. Per percorrerla, dovete nutrire una fede e una fiducia complete e totali nel Buddha-dhamma-sangha. I rifugi non esistono per meriti propri. Sono stimoli per la mente che aiutano a comprendere la vera natura del Buddha-dhamma-sangha. Contemplandoli, rinuncerete a tutti i presupposti che provengono dalla visione egoica.

D.: Avete consigli da dare, per esempio cantare o avere un tabernacolo, per alimentare la fede e renderla concreta.

R.: Sì. Vi suggerisco di usare qualunque forma d'arte, simbolo, convenzione o tradizione che sia, secondo voi, di aiuto. Ricordate che in una società in cui il Buddha, il dhamma e il sangha non significano nulla e in cui sono molteplici le opinioni contrarie alla tradizione e alla devozione, quest'ultima è considerata una sorta di ingenua credenza. Perciò abbiamo veramente bisogno di scegliere i simboli nella nostra religione e valorizzarli, per saggezza, non per superstizione. Nel caso del Buddha, del dhamma e del sangha, noi non usiamo i simboli in modo superstizioso, ma con saggezza; per commemorazione, ricordo, attenzione. Se coltivate la devozione al Buddha, al dhamma e al sangha nel qui e nell'adesso, li state usando. Così essi diventano strumenti di attenzione, e non simboli di un credo.



- dal libro "La mente e la via" -


http://santacittarama.altervista.org/tre_rifugi.htm

lunedì 4 gennaio 2010

Il silenzio interiore è il punto da cui nasce ogni cosa


Il silenzio interiore - Carlos Castaneda

Don Juan definiva il silenzio interiore come uno stato peculiare dell'essere in cui tutti i pensieri vengono cancellati e in cui si vive a un livello diverso da quello della consapevolezza quotidiana. Il silenzio interiore significa sospensione del dialogo interiore, il compagno sempre presente dei nostri pensieri, ed è quindi una condizione di completa pace.

Gli antichi sciamani lo chiamavano silenzo interiore perché è uno stato in cui la percezione non dipende dai sensi, ma da un'altra facoltà dell'uomo, la facoltà che lo rende un essere magico e che è stata depotenziata non dall'uomo stesso, ma da qualche influenza estranea.

DON JUAN:
«Nello sciamanismo, il silenzio interiore è il punto da cui nasce ogni cosa. In altre parole, tutto ciò che facciamo ci guida verso tale stato che, come sempre accade nel mondo degli sciamani, non emerge se non veniamo scossi da qualcosa di gigantesco.» mi spiegò.

Aggiunse poi che gli sciamani dell'antico Messico erano soliti elaborare un'infinità di sistemi per scuotere se stessi o i loro colleghi, fin nelle fondamenta, per raggiungere la condizione tanto ambita del silenzio interiore. Essi ritenevano che i gesti più disparati, apparentemente lontani da tale obiettivo, come per esempio saltare in una cascata o passare la notte appesi a testa in giù sul ramo più alto di un albero, fossero i punti chiave per realizzarlo.

Basandosi sulle spiegazioni di questi sciamani, don Juan dichiarò con estrema sicurezza che il silenzio interiore viene accumulato. Nel mio caso, si sforzò di guidarmi a costruire un nucleo di silenzio interiore nella profondità del mio essere, che avrei poi fatto crescere, istante dopo istante, ogni volta che lo praticavo. Mi spiegò che gli sciamani avevano scoperto che ogni singolo individuo possiede una soglia diversa di silenzio interiore per quanto riguarda il tempo: ciò significava che il silenzio interiore prima di poter funzionare, dev'essere mantenuto da ciascuno di noi per tutto il tempo necessario a varcare tale soglia. (...)

DON JUAN:
«Il silenzio interiore inizia ad agire nell'attimo stesso in cui cominci ad accumularlo. Gli antichi sciamani volevano ottenere il risultato supremo, il raggiungimento cioè di quella soglia individuale di silenzio. (...) E tale risultato era ciò che gli antichi sciamani chiamavano fermare il mondo, l'attimo in cui tutto ciò che ci circonda cessa di essere ciò che è sempre stato. Questo è il momento in cui gli sciamani ritornano alla loro vera essenza. La definivano anche libertà totale. In quell'istante l'uomo-schiavo diventa l'uomo-essere-libero, con capacità percettive che sfidano il nostro pensiero lineare.»


- da "Il lato attivo dell'infinito" -


sabato 2 gennaio 2010

Nessuno perverrà mai alla liberazione attraverso una dottrina


Ma Siddharta passeggiava pensieroso attraverso il boschetto. S’imbatté così in Gotama, il Sublime, e lo salutò rispettosamente e poiché lo sguardo del Buddha era pieno di bontà e di dolcezza, il giovane si fece animo e chiese al degno uomo il permesso di parlargli. Con un cenno silenzioso, il Sublime acconsentì.

Parlò Siddharta: «Ieri, o Sublime, mi fu dato di ascoltare la tua mirabile dottrina. Insieme col mio amico io venni da lontano per ascoltare la dottrina. E ora il mio amico rimarrà coi tuoi uomini, egli si rifugia in te. Ma io riprendo ancora il mio pellegrinaggio».

«Come ti piace» disse il degno uomo cortesemente.

«Troppo ardite son le mie parole,» continuò Siddharta «ma non vorrei lasciare il Sublime senza avergli esposto schiettamente il mio pensiero. Vuole il Venerabile prestarmi ascolto ancora un momento?».

Con un cenno silenzioso il Sublime assentì.

Disse Siddharta: «Una cosa, o Venerabilissimo, ho ammirato soprattutto nella tua dottrina. Tutto in essa è perfettamente chiaro e dimostrato; come una perfetta catena, mai in nessun luogo interrotta, tu mostri il mondo: una eterna catena, contesta di cause e di effetti. Mai ciò è stato visto con tanta chiarezza, né esposto in modo più irrefutabile; certamente più vivo deve battere il cuore in petto a ogni Brahmino quand’egli, guidato dalla tua dottrina, senza soluzioni di continuità, limpido come un cristallo, non dipendente dal caso, non dipende dagli dèi. Se esso sia buono o cattivo, se la vita in esso sia gioia o dolore, può forse rimanere oscuro (può anche essere che questo non sia la cosa essenziale); ma l’unità del mondo, la connessione di tutti gli avvenimenti, l’inclusione di ogni essere, grande e piccolo, nella stessa corrente, nella stessa legge delle cause ultime, del divenire e del morire, questo risplende chiaramente dalla tua sublime dottrina, o Perfettissimo. Ma ora, secondo la tua stessa dottrina, in un punto è interrotta questa unità e consequenzialità di tutte le cose, attraverso un piccolo varco irrompe in questo mondo unitario qualcosa che prima non era e che non può essere indicato né dimostrato: e questo varco è la dottrina del superamento del mondo, della liberazione. Ma con questo piccolo spiraglio, con questa piccola rottura viene di nuovo infranto e compromesso l’intero ordinamento del mondo unitario ed eterno. Voglimi perdonare, se ho osato proporti quest’obiezione».

Tranquillo e immobile l’aveva ascoltato Gotama. Quindi parlò a sua volta, il Perfetto: parlò con la sua voce benigna, con la sua voce chiara e cortese: «Tu hai udito la dottrina, o figlio di Brahmino, e torna a tuo onore di avervi riflettuto così profondamente. Tu vi hai trovato una frattura, un errore. Possa tu andar oltre col pensiero. Permetti solo ch’io ti metta in guardia, o tu che sei avido di sapere, contro la molteplicità delle opinioni e contro le contese puramente verbali. Le opinioni non contano niente, possono essere belle o odiose, intelligenti o stolte, ognuno può adottarle o respingerle. Ma la dottrina che hai udito da me, non è mia opinione, e il suo scopo non è di spiegare il mondo agli uomini avidi di sapere. Un altro è il suo scopo: la liberazione dal dolore. Questo è ciò che Gotama insegna, null’altro».

«Perdona il mio ardire, o Sublime» disse il giovane. «Non per avere una discussione con te, una discussione puramente terminologica, ti ho parlato poc’anzi in questo modo. In verità, hai ragione: contano poco le opinioni. Ma permettimi di dire ancora questo: non un minuto io ho dubitato di te. Non un minuto ho dubitato che tu sei Buddha, che tu hai raggiunto la meta, la somma meta verso la quale si affaticano tante migliaia di Brahmini e di figli di Brahmini. Tu hai trovato la liberazione dalla morte. Essa è venuta a te attraverso la tua ricchezza, ti è venuta incontro sulla tua stessa strada, attraverso il tuo pensiero, la concentrazione, la conoscenza, la rivelazione. Non ti è venuta attraverso la dottrina! E – tale è il mio pensiero, o Sublime – nessuno perverrà mai alla liberazione attraverso una dottrina! A nessuno, o Venerabile, tu potrai mai, con parole, e attraverso una dottrina, comunicare ciò che avvenne in te nell’ora della tua illuminazione! Molto contiene la dottrina del Buddha cui la rivelazione è stata largita: a molti insegna a vivere rettamente, a evitare il male. Ma una cosa non contiene questa dottrina così limpida, così degna di stima: non contiene il segreto di ciò che il Sublime stesso ha vissuto, egli solo fra centinaia di migliaia. Questo è ciò di cui mi sono accorto, mentre ascoltavo la dottrina. Questo è il motivo per cui continuo la mia peregrinazione: non per cercare un’altra e migliore dottrina, poiché lo so, che non ve n’è alcuna, ma per abbandonare tutte le dottrine e tutti i maestri e raggiungere da solo la mia meta o morire. Ma spesso ripenserò a questo giorno, o Sublime, e a questa ora, in cui i miei occhi videro un Santo».

Chetamente fissavano il suolo gli occhi del Buddha, chetamente raggiava in perfetta calma il suo viso imperscrutabile.

«Voglia il cielo che i tuoi pensieri non siano errori!» parlò lentamente il Venerabile. «Possa tu giungere alla meta! Ma dimmi, hai tu visto la schiera dei miei Samana, dei molti miei fratelli che si sono convertiti alla dottrina? E credi tu, o Samana forestiero, credi tu che per tutti costoro sarebbe meglio abbandonare la dottrina e rientrare nella vita del mondo e dei piaceri?».

«Lungi da me un tal pensiero!» gridò Siddharta. «Possano essi rimaner tutti fedeli alla dottrina, possano raggiungere la loro meta. Non tocca a me giudicare la vita di un altro. Solo per me, per me solo devo giudicare, devo scegliere, devo scartare. Liberazione dall’Io è quanto cerchiamo noi Samana, o Sublime. Se io diventassi ora uno dei tuoi discepoli, o Venerabile, mi avverrebbe – temo – che solo in apparenza, solo illusoriamente, il mio Io giungerebbe alla quiete e si estinguerebbe, ma in realtà, esso continuerebbe a vivere e a ingigantirsi, poiché lo materierei della dottrina, della mia devozione e del mio amore per te, della comunità con i monaci!».

Con un mezzo sorriso, con immutata e benigna serenità Gotama guardò lo straniero negli occhi e lo congedò con un gesto appena percettibile.

«Tu sei intelligente, o Samana» disse il Venerabile. «Sai parlare con intelligenza!».
Il Buddha s’allontanò, e il suo sguardo e il suo mezzo sorriso rimasero per sempre incisi nella memoria di Siddharta.

Mai ho visto un uomo guardare, sorridere, sedere, camminare a quel modo, egli pensava, così veramente desidero anch’io saper guardare, sorridere, sedere e camminare, così libero, venerabile, modesto, aperto, infantile e misterioso. Così veramente guarda e cammina soltanto l’uomo che è disceso nell’intimo di se stesso. Bene, cercherò anch’io di discendere nell’intimo di me stesso.

Ho visto un uomo, pensava Siddharta, un uomo unico, davanti al quale ho dovuto abbassare lo sguardo. Davanti a nessun altro voglio mai più abbassare lo sguardo: a nessun altro. Nessuna dottrina mi sedurrà mai più, poiché non m’ha sedotto la dottrina di quest’uomo.

Il Buddha m’ha derubato, pensava Siddharta, m’ha derubato, eppure è ben più prezioso ciò ch’egli mi ha donato. M’ha derubato del mio amico, di colui che credeva in me e che ora crede in lui, che era la mia ombra e che ora è l’ombra di Gotama. Ma mi ha donato Siddharta, mi ha fatto dono di me stesso.


– da “Siddharta” di Hermann Hesse


venerdì 1 gennaio 2010

L'ombra della luce




L'ombra della luce - Franco Battiato


Difendimi dalle forze contrarie,
la notte, nel sonno, quando non sono cosciente,
quando il mio percorso si fa incerto,
E non abbandonarmi mai...
Non mi abbandonare mai!

Riportami nelle zone più alte
in uno dei tuoi regni di quiete:
E' tempo di lasciare questo ciclo di vite.
E non abbandonarmi mai...
Non mi abbandonare mai!

Perché le gioie del più profondo affetto
o dei più lievi aneliti del cuore
sono solo l'ombra della luce.

Ricordami, come sono infelice
lontano dalle tue leggi;
come non sprecare il tempo che mi rimane.
E non abbandonarmi mai...
Non mi abbandonare mai!

Perché la pace che ho sentito in certi monasteri,
o la vibrante intesa di tutti i sensi in festa,
sono solo l'ombra della luce.


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