di Francesco Lamendola
Vi sono dei momenti nei quali la notte dell’anima sembra non dover finire mai; in cui si potrebbe quasi credere che nessun nuovo giorno verrà a rischiarare il nostro mondo interiore e a disperdere i neri fantasmi dell’angoscia, dello smarrimento, della paura.
Chi non ha mai conosciuto simili momenti di estrema, tormentosa incertezza, di acuta e penosa solitudine spirituale? Chi non si è mai sentito abbandonato da tutti, anche dalla parte migliore di se stesso; chi non ha mai dubitato sino alle radici della propria anima?
Solo ai bambini è concesso di non fare tale esperienza, e neppure sempre; ma alle persone adulte no, e in realtà è un bene che sia così: perché solo passando attraverso il fuoco dell’ansia, della confusione, del turbamento più intimo, ci è dato intravedere la fragile sostanza di cui siamo fatti e la sostanza eterna, adamantina, luminosa, che splende dentro e intorno a noi quando più cupo è l’orizzonte e che felicemente ci può accogliere, se noi vi consentiamo.
Tutto il resto è orgoglio e inconsapevolezza.
Non è veramente adulto se non chi è passato attraverso quel fuoco, attraverso quel dubbio, attraverso quell’agonia, e ne è uscito ai caldi raggi del nuovo giorno, scoprendo che la notte non dura per sempre e che essa non è destinata ad avere l’ultima parola.
Questa prova si impone a molti, ma serve a fortificare solo i migliori: quelli che hanno il coraggio di essere se stessi, di rifiutare le soluzioni consolatorie e le fedi prefabbricate, di percorrere sino in fondo - con fedeltà, costi quello che costi - la propria strada.
Non si nasce uomini o donne: si nasce bambini; e molti rimangono tali per tutta la vita, perché non hanno mai osato staccare i loro passi dal sentiero già battuto e affrontare il terreno ignoto, con tutte le sue bellezze, ma anche i suoi pericoli.
Bambini mai cresciuti sono quegli uomini e quelle donne che non hanno mai osato pensare con la loro testa, cercare con il loro cuore, rischiare sulla propria pelle; che si esprimono per frasi fatte, e per ogni circostanza della vita hanno la loro bussola già bella e pronta: il loro giornale, il loro partito, la loro setta, la loro parrocchia. Prima ancora che aprano bocca, si sa già quel che diranno, perché le loro parole non nascono da loro stessi, ma sono giaculatorie e litanie di bassa lega, che hanno imparato a memoria.
Bambini mai cresciuti sono anche quelle donne che sanno solo farsi desiderare, ma non hanno nulla da offrire se non la loro vuota vanità; e bambini mai cresciuti sono quegli uomini che, invece di aiutarle a crescere con la virile pedagogia di disprezzare i loro giochetti tortuosi e ignorare le loro ambizioni sbagliate, le lusingano e le corteggiano proprio in ciò che esse hanno di meno bello, di meno pulito, di meno limpido.
Bambini mai cresciuti sono i potenti che abusano del loro potere, i forti che abusano della loro forza, i ricchi che abusano del loro denaro; ma anche, e qui viene la denuncia di ogni demagogia, coloro che si riparano dietro la propria debolezza, che si fanno forti della loro miseria, che si barricano dietro la loro sofferenza e ne fanno un motivo di ricatto morale.
Bambini mai cresciuti, e nel senso peggiore del termine (perché vi è anche un senso positivo, che è quello di conservare in se stessi lo stupore e l’incanto del mondo) sono tutti quegli esseri umani che hanno sempre bisogno di confortarsi e rassicurarsi con le teorie di qualcun altro, con le esperienze di qualcun altro, con le dottrine di qualcun altro; ma che, quanto a loro, non hanno mai osato nemmeno soffiarsi il naso con le proprie mani.
E nondimeno - lo si vede spesso - proprio costoro osano impancarsi a giudici degli altri, dall’alto delle loro verità acquistate all’ingrosso, delle loro cattedre fasulle, dei loro sermoni acquistati a peso in qualche liquidazione intellettuale, politica o religiosa, ove hanno ottenuto la merce per loro più confacente a prezzi di saldo.
Tutti costoro, forse, non hanno mai provato l’angoscia della notte; o, se pure l’hanno provata, ne sono usciti, o meglio hanno creduto di uscirne, imboccando la via più comoda e facile, quella dei prontuari prefabbricati, che promettono meravigliosi risultati psicologici con pochissima fatica e che garantiscono a tutti equilibrio interiore e fiducia in se stessi.
Del resto, per fare l’esperienza della notte dell’anima, bisogna possedere l’esperienza di che cosa sia la luce del giorno; ma come può aver visto la luce il dormiente, che tiene entrambi gli occhi ben chiusi davanti alla realtà, perché non ha mai visto nulla coi suoi occhi, ma crede di farlo, e intanto afferma di vedere quel che altri gli suggeriscono?
Perciò, caro amico e cara amica che state soffrendo nella notte della vostra anima, non lasciatevi sopraffare dallo sconforto: verrà il mattino, verrà con il benefico canto del gallo; e, intanto, sappiate che la vostra sofferenza non è inutile, che essa è anzi un privilegio, perché colpisce solo le anime profonde, mentre si allontana dalle anime volgari. Non che le tema: semplicemente, di esse non saprebbe che fare, come lo scultore che non saprebbe come adoperare una pietra troppo scadente per potervi modellare una immagine qualsiasi.
Da quando la cattiva genia degli antichi sofisti ha cominciato a diffondere la sua esiziale dottrina, che il sapere è alla portata di chi lo paga in moneta sonante e che non v’è alcuna verità certa, ma che ogni opinione può essere spacciata per la verità, il mondo è stato infettato dal duplice morbo della venalità intellettuale e del relativismo estremo, lo è stato per secoli e lo è tuttora (le arti del trivio e del quadrivio, con in cima la retorica, provengono da quella mala razza di intellettuali-prostituiti), e - per dirla con Dante - «un Marcel diventa ogni villan che parteggiando viene».
Gli uomini e le donne autentici, che cercano onestamente la verità e che ben sanno come essa sia forse l’unica cosa che non si può acquistare col denaro, devono quindi tenersi pronti a lottare su due fronti: contro l’invidia, la malevolenza, la bigotteria dei piccoli uomini e delle piccole donne attaccati alle loro formule dozzinali e contro la notte dell’anima, che scende quando quest’ultima è più stanca e prostrata dalla solitudine e dall’incomprensione altrui.
La prima battaglia, che durerà tutta la vita, è una battaglia meschina, che non reca all’anima alcun beneficio e, anzi, rischia di lasciarle in retaggio un frutto velenoso: il cinismo, ovvero il disprezzo per l’umanità; e tuttavia essi la devono combattere, perché viene loro imposta dall’esterno, contro la loro volontà, e perché la vita è fatta anche di sopravvivenza quotidiana e non solo di slanci sublimi verso le altezze dell’ideale.
Ma è una battaglia che non si potrà mai vincere se si accetta di combatterla sul terreno dei piccoli botoli ringhiosi, se si accetta di combatterla con le loro armi e se si giudica la vittoria o la sconfitta secondo il loro metro; la si può vincere, al contrario, solo rifiutando quel terreno e quelle armi e disprezzando quella maniera di giudicarne l’esito. Che se la combattano da soli, su quel terreno ingannevole e con quelle armi truccate, i botoli ringhiosi: la persona saggia si guarderà bene dal lasciarsi invischiare più dello stretto necessario e si lascerà alle spalle, di volta in volta, le mosche e le zanzare dalla puntura molesta, ma in fondo trascurabile.
Molto più importante è l’altra battaglia, quella che si combatte a tu per tu con se stessi, con la propria parte meno coraggiosa, meno limpida, meno salda; la battaglia che dobbiamo affrontare, presto o tardi, per mettere alla prova la nostra fedeltà verso di noi, per misurare le nostre forze, per renderci conto della strada già fatta e di quella che ci resta da percorrere.
Anche questa battaglia dura per tutta la vita, ma procede per crisi successive, ciascuna delle quali, se superata, introduce a un cammino di difficoltà superiore, anche se allietato, nel medesimo tempo, da un livello immensamente più elevato di elementi positivi. È come se si dovesse affrontare una successione di porte chiuse e sbarrate: ogni volta che si riesce ad aprirne una e a proseguire, crescono sia la gioia interiore, la forza e la consapevolezza, sia le asperità del terreno e il pericolo di scivolare: però, nel complesso, più si procede e più aumentano la luce, la bellezza, l’armonia.
Soprattutto, cresce la facoltà dei sensi interiori: si vedono cose che prima non si vedevano, si odono suoni e voci che prima erano impercettibili, si comprendono e si apprezzano verità che prima apparivano oscure ed enigmatiche.
Per questo la notte, quando scende, appare sempre più oscura: non perché il paesaggio si sia realmente incupito, ma perché i sensi interni hanno sviluppato delle potenzialità prima inimmaginabili; e per questo, anche, quando ritorna la luce del mattino, la gioia diviene tanto più grande, tanto più luminosa e perfetta.
Quanto più si è sofferto, tanto più si impara a godere della pace; quanto più si è stati soli, tanto più si impara a godere dell’amicizia; quanto più ci si è sentiti abbandonati in un mondo senza significato, tanto più si comprende l’intima e armoniosa connessione che lega tutte le cose, dalle più alte alle più basse, dalle più grandi alle più piccole, dalle più vicine alle più lontane.
Si capisce anche che il passato e il futuro sono la stessa cosa, sono la stessa realtà considerata da due punti di osservazione differenti; anzi, per parlare più esattamente, che non esistono in se stessi, perché l’unica cosa che esiste veramente è il presente, l’eterno presente dell’Essere. Si capisce, di conseguenza, che «i nostri poveri morti», come noi melodrammaticamente li chiamiamo, non ci hanno affatto lasciati, che non sono andati chissà dove.
Molte cose si capiscono solo dopo aver attraversato la notte dell’anima; cose che non si trovano scritte sui libri e delle quali le persone superficiali riderebbero; non importa se si tratta di persone che possiedono una certa erudizione, anzi quelle sono proprio le meno adatte a comprendere, perché chiuse e corazzate nel loro orgoglio intellettuale.
È più facile che capiscano qualcosa, o che, almeno, non assumano un atteggiamento di sprezzante incredulità, le persone semplici e ignoranti, che possiedano però un alto sentire: e quest’ultima dote non discende dal numero delle letture che si sono fatte, né dalla quantità di titoli di studio che si possono esibire come trofei di caccia.
Infine, la verità più preziosa di tutte, che non viene compresa da quanti sono accecati dalla propria presunzione, è che, nella notte dell’anima, non si è veramente soli come si crede di essere: quando le vene e i polsi tremano per lo sbigottimento, quando sembra di essere sul ciglio del precipizio, c’è Qualcosa o Qualcuno che veglia accanto a noi.
Questo è il segreto che i superficiali e i presuntuosi ignorano e che non arriveranno mai a comprendere né ad ammettere, anche se hanno la testa imbottita di sapere libresco e anche se credono di poter capire tutto, giudicare tutto, spiegare tutto; perché è un segreto silenzioso, impalpabile, che sopraggiunge in punta di piedi e che si fa riconoscere solo da colui o da colei che ne siano veramente degni.
Una presenza benefica, luminosa, ineffabile, scende accanto all’anima quando più densa è l’oscurità della notte, quando l’ultima stella si è eclissata dietro le nubi e quando l’ultima goccia di coraggio sembra averci abbandonati. Una presenza cui non si saprebbe dare un nome, perché non corrisponde a nulla di cui, nella vita ordinaria, si possa fare esperienza: una presenza totale, che riempie ogni angolo e che scorre entro ogni piega dell’anima.
Chiamatela illuminazione, se volete: ma è soltanto una parola; e qualunque altra parola si possa adoperare, sarà sempre soltanto una parola convenzionale e inadeguata.
Ecco perché tutto l’insegnamento dei maestri venali, degli eterni sofisti non è che illusione e ciarlataneria: perché è fatto di parole; ma il progresso dell’anima non si misura a parole, si realizza per mezzo di successivi stati dell’essere e nessuna scienza materialista potrà mai individuarlo, osservarlo, quantificarlo.
Lo vedranno gli altri, lo vedrà l’anima rischiarata in se stessa: ma sarà un’esperienza concreta, non qualcosa che si possa definire per mezzo di formule. Certe esperienze non si possono esprimere a parole, perché non esiste alcun linguaggio capace di tradurle.
Ma, si domanderà, come fare a distinguere l’esperienza vera da quella illusoria?
Non c’è una risposta teorica. Chi ha provato la terribile sete nel deserto, cerca la sorgente e, trovatala, vi si abbevera avidamente: ma il gusto di quell’acqua non potrà essere spiegato a chi non abbia mai conosciuto la sete; può solo essere sperimentato.
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