Dall’alto della scalinata che conduceva a una piccola chiesa circondata dalla boscaglia, si dominava il panorama ineguagliabile di San Cristóbal de Las Casas. Una distesa di tegole rosso scuro e caffè tostato, nel reticolo squadrato tipico delle colonie spagnole, dove si distingueva il giallo ocra della cattedrale e il verde oliva del giardino attorno al chiosco dello zocalo, la piazza centrale. Il sole declinava velocemente dietro le montagne blu, e il freddo pungente dell’inverno chiapaneco giustificava gli innumerevoli fili di fumo bianco che si levavano dai comignoli, mentre un intenso odore di legna resinosa bruciata si diffondeva sulla città. Leandro, seduto contro il parapetto dell’ultima piazzola, stringeva tra le braccia Adelita, la schiena di lei contro il petto di lui, e visti dal basso sembravano un bozzolo variopinto, per via delle giubbe di lana comprate quello stesso mattino al mercato. Leandro parlava sottovoce, in tono monocorde, senza chiedersi se Adelita fosse davvero interessata a quel lungo sfogo che assomigliava a un bilancio esistenziale. Era la prima volta che raccontava se stesso a qualcuno, riesumando le parti morte del suo passato, forse con l’inconsapevole intento di capire cosa ci stesse a fare lì, e perché nulla di quanto aveva fatto fino a quel momento lo soddisfacesse. Adelita ascoltava, e non sentiva il bisogno di confermargli che valeva la pena dire tutto quello che stava dicendo.
– C’è questa assurda sensazione di onnipotenza, quando stai dietro la telecamera. Guardi tutto attraverso di lei, la realtà si dipana per inquadrature, ti abitui a ragionare con i suoi stessi parametri elettronici, noti sempre il controluce, da dove arriva l’illuminazione, con che taglio, ti abitui a dare uno spessore completamente diverso alle cose quando la luce le tocca, o le esalta con un riflesso... Le ore trascorse a girare hanno un’intensità diversa. E quando smetti, la sera o al mattino, senti che la tua memoria visiva è intasata, e gli occhi hanno subìto uno scompenso difficile da spiegare: uno continua a vedere la realtà vera, l’altro la riprende. Una pupilla resta intasata, l’altra è normale. Forse è anche da questo che deriva la sensazione di schizofrenia, che ti accompagna sempre, anche quando ti costringi a lasciare la telecamera a casa... Dicevano che ero una “buona spalla”. Perché sapevo usare al meglio la telecamera da spalla, ero un buon operatore per immagini fluide, riuscivo a trasformare il mio corpo in un cavalletto semovente... La telecamera diventa una compagna, dopo anni e anni tendi a umanizzarla... Lei pesa, ti fa male, ti segna la spalla di un eterno livido bluastro, e un altro sulla gamba, dove sbatte quando la porti in giro... Ma finisce che si crea una simbiosi, e allora sai che lei è delicata, ha una mente e un cuore, e teme gli sbalzi di temperatura, se passi dal freddo al caldo si appanna e impazzisce, l’umidità la può ferire a morte, e così vivi nel continuo terrore che le accada qualcosa, perché alla fine è lei che ti permette di portare a casa tutto... C’è questo momento magico in cui entra un’inquadratura dietro l’altra, e ti muovi come in trance, non senti nessuno, e vai avanti, giri, giri, e se stanno sparando, è quello il motivo per cui crepano tanti operatori: sono lì ma non sono lì. Tra te e quelli che combattono si crea un filtro, e non ti rendi conto che le pallottole non lo rispettano, quel filtro... Ma per campare, visto quello che giravo in zone di guerra, dovevo fare altro, cioè stare a disposizione dei notiziari e tenermi pronto a correre fuori di casa alla prima telefonata. I servizi giornalistici funzionano così: è successa la tal cosa, ti chiamano, ti precipiti all’appuntamento con l’inviato, e quello dice: “Inquadrami il morto, fammi un primo piano della moglie che piange e urla, seguimi che la intervistiamo”... Fino a pochi secondi prima parlava sghignazzando di donne e sport, e della cravatta che non si intonava alla giacca, e subito dopo, mentre lo inquadri, assume quell’aria addolorata, e il tono è da dramma in diretta. Poi, in macchina, lui scrive il pezzo e parla di scemenze qualsiasi con l’autista, e intanto tu hai assorbito nel cervello la faccia del morto, la casa sventrata, le macerie del terremoto con i brandelli di esistenza sparsi nella polvere, la donna che piangeva, gli occhi smarriti di un bambino, il sangue sull’asfalto dell’autostrada... E li tieni tutti qui, dentro il cranio, e ti impregnano le budella, e prima o poi la sconti... Non si può avere una coscienza e fare tutto questo senza che si scavi un buco nero nel cuore. Niente emozioni, perché se ne hai, sei fregato. Non ho resistito. Mi sentivo un guardone, un ladro di dolori altrui. E così ho dato un calcio alla carriera che tanti altri mi invidiavano.
Leandro tacque per qualche istante. Fissò i capelli di Adelita. Chiuse gli occhi e si perse nel suo profumo di mandorle dolci. Lei sospirò, si voltò a guardarlo, e mormorò:
– Perché ti sei fermato qui? Perché proprio in Messico?
Leandro conosceva la risposta, ma sapeva che non era possibile darle una forma, trovare le parole e disporle nel modo giusto. Così, rispose soltanto:
– Perché mi ha costretto a vivere.
Adelita fece un cenno vago, un’espressione in cui si mescolava l’amarezza e l’ironia.
– A molti di noi che ci siamo nati, invece, il Messico costringe a sopravvivere. E spesso, a morire.
Leandro annuì, senza aggiungere nulla.
– Eppure – continuò Adelita – nonostante tutto, non siamo disposti a disprezzarlo. Al contrario, lo amiamo. Per quanto sia spietato e crudele, lo amiamo come una creatura fragile, che noi stessi distruggiamo e ricostruiamo in ogni istante. Non saprei dirti perché, Leandro, noi messicani amiamo tanto il nostro paese, anche quando ci tratta come schiavi e ci umilia. Però mi piacerebbe capire perché tu, uno straniero, te ne sei innamorato... Cosa ti ha dato e cosa ti aspetti dal Messico...
Leandro strinse più forte Adelita tra le braccia, sentì che anche lei rabbrividiva per una folata di vento gelido calato dalle montagne blu, e aprì la bocca un paio di volte cercando di iniziare un discorso. Lei glielo impedì: lo baciò, trasmettendogli calore in tutto il corpo. Avvicinandogli le labbra all’orecchio, gli sussurrò:
– C’è tempo, mi amor. Non devi dirmi tutto adesso.
– da “Demasiado Corazón” di Pino Cacucci –
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