«Ascolta – ricomincia la voce che è venuta a prendermi con fermezza – ascolta... Ciò che siamo e chi siamo lo si può intravedere nel mezzo di due pensieri, in quello spazio profondamente sacro, totalmente vergine e vivo, fatto di silenzio, a cui ben raramente prestiamo attenzione. Girare la chiave nella serratura non significa smettere di pensare, ma dilatare lo spazio che esiste nel bel mezzo di tutti gli elementi che ci attraversano, e dei quali automaticamente ci orniamo. Sicché, tu sei veramente... quello che attualmente soffochi fra due pensieri».
«Mi stai dicendo di meditare. A me non dispiace, ma qui non è la mia opinione che conta. La via della meditazione sembra troppo austera, troppo carica di colorazioni diverse, per poterla proporre con successo proprio a tutti. Non credo che tu voglia confortare quelli che “lavorano su se stessi” nella loro convinzione di essere un’élite; fra i meditanti innegabilmente ce ne sono molti che volutamente si rendono “speciali”, dissimulano dietro alle ore di meditazione e a una parvenza di umiltà il loro senso di superiorità».
«Non è di meditazione che sto parlando. È un termine che, da solo, basta per far alzare le spalle e levare i tacchi a folle intere. Nella tua società, all’idea di meditare associate una mancanza di radicamento, una marginalizzazione, una connotazione di austerità da cui possono nascere tutt’al più degli utopisti dall’animo gentile.
E quando mai accade che una persona ammiri chi medita, ecco che pensa subito che la meditazione non fa per lei, che certo, vorrebbe, ma non ne ha proprio il tempo...»
All’improvviso mi viene in mente una domanda, e questa salta fuori a una tale velocità, che ho la certezza di interrompere il mio interlocutore.
«E nel mondo da cui vieni, meditate?»
«Non più, o quasi per nulla! Perlomeno non nel senso in cui lo intendete sulla Terra. L’osservazione dei mondi ci ha fatto constatare che esistono globalmente due modi di meditare; potremmo dire che c’è la meditazione-strumento e la meditazione-stato di coscienza, e l’una non esclude l’altra. Quando ti dico che nessuno medita nel mondo da cui vengo, significa in realtà che nessuno vi pratica la meditazione-strumento, cioè la meditazione-metodo tecnico. Da noi si dà invece un valore sacro alle azioni, perché le azioni, come gli atteggiamenti, sono linguaggi, particelle del vocabolario con cui si scrive la vita. Assegnare loro una funzione sacra, significa permettere finalmente che si esprima quello spazio silente, o per meglio dire, quella non-azione che le anima».
«Stai dicendo che ci può essere la non-azione nel cuore stesso dell’azione?»
«Sì, nell’azione giusta, quella che noi chiamiamo azione sacra. Naturalmente ci vuole una spiegazione: per noi, sacro non coincide con religioso. Il sacro è ciò che asseconda il senso della Vita, ciò che si avvicina il più possibile alla sua essenza. Con la non-azione nell’azione, si eliminano semplicemente i rapporti di forza, si cancella il conflitto. Da molto tempo siamo intimamente coscienti che la Presenza del Vivente, in noi e attraverso di noi, sa esattamente dove sta andando e che cosa vuole. La non-azione, nel senso che intendiamo noi, è assenza del riflesso condizionato della guerra, è sguardo non-duale.
Immagino che ti sia già capitato di vedere qualcuno praticare l’arte orientale del Tai-chi. Ebbene noi viviamo con quella stessa scioltezza ed eleganza, senza che sia necessario praticare fisicamente tale disciplina. La relazione che abbiamo con gli esseri e con le cose diventa dunque spontaneamente fluida. Non vuol dire che, sulla nostra strada, non incontriamo ostacoli, ma piuttosto che scivoliamo sottilmente sulle loro mura apparenti, ce la svignamo passando per i famosi spazi di silenzio e di vuoto di cui gli ostacoli sono fatti. Non permettiamo ai pensieri che li creano di svilupparsi, di consegnarci l’essenza del loro insegnamento».
«Dunque, anche per voi, tutto è insegnamento».
«Non c’è nulla di nuovo, in questo, sono d’accordo... Ma invece di limitarci a dirlo, noi viviamo in base a questo punto di vista, ed è una vera rivoluzione per la tua società! È una visione che per noi è un’arte a sé, e che assume il valore e la forza di una meditazione permanente. Essa non può né essere concepita né crescere al di fuori di un rapporto d’amore con se stessi e con tutto ciò che incrociamo sulla nostra via.
Questo non esclude ovviamente la meditazione-metodo, la meditazione-strumento tecnico, se una persona se ne sente attratta, o se è necessaria per il suo stato attuale, ma ha il merito immenso di evitare le trappole che la meditazione-tecnica nasconde, e di essere aperta a tutti.
Vogliamo, insomma, demarginalizzare la realtà straordinaria della Presenza sottile in ognuno di noi. Siamo qui per seminare semi di felicità, e suggerirvi, in questo senso, di auto-seminarvi. Lungi da noi l’intenzione di creare parametri per una nuova fede!»
«Sulle trappole della meditazione come tecnica, non hai fatto che sorvolare...»
«La trappola consiste, per cominciare, nel confondere il mezzo con lo scopo. Meditare non è mai stato una finalità in sé. Non è nient’altro che prendere in mano il cesello dello scultore, poi il martello, e modellare un blocco di pietra per liberare la forma perfetta che è già lì, in attesa. A forza di osservarla e di sezionarla, può però accadere che ci si dimentichi la Vita, ed è da questa trappola che è nato l’inaridimento delle vostre radici, nel cuore stesso del vostro mondo. Quando ci cadete dentro, dimenticate l’aspetto trascendente della bellezza che vi circonda.
Esiste una seconda trappola nella meditazione: la possibilità che diventi una fuga di fronte alle vostre responsabilità di attori. Per certuni, meditare può diventare un modo per mettere a tacere la coscienza, di fronte all’incapacità di far sbocciare ogni giorno l’amore-offerta».
«Riconosco che sono stupito da questo tuo chiamare, sobriamente, “il Vivente” il Principio di vita che impregna ogni cosa, senza limiti».
«Fai attenzione, però: anche questa parola è solo una caricatura. Una parola altro non è che il guscio di un concetto, che continuamente si evolve. Se ci restiamo attaccati oltre misura diventa la nostra prigione, e diventiamo allora incapaci di intrufolarci fra le sbarre del vocabolario, e raggiungere quegli spazi di silenzio di cui ti parlavo prima. Con un poco di esagerazione, potremmo dire che ci sono tanti vocabolari quanti sono gli esseri pensanti, non appena essi pongono il Vivente fuori di sé. Questo riassume la storia della Torre di Babele. Ciascuno si chiude nel suo piccolo mondo, e riduce l’universo alle modeste dimensioni dell’individuo. È questa la sperimentazione che noi chiamiamo “morte”».
«A seguire il tuo ragionamento, attualmente, sulla Terra, siamo quasi tutti morti!»
«Esitavo a dirtelo, se non altro in modo così smaccato, ma visto che lo fai tu... La morte è tutto ciò che supponete sia definitivo. La morte è credere nei limiti, il credo che recitate ogni mattina, senza accorgervene, quando vi alzate. La morte è voler definire la Vita, e credersi capaci di esprimere l’Inesprimibile».
«E la Vita, allora?»
«La Vita, significa sapersi chiamati a fondersi in quel medesimo Inesprimibile...»
– da “Conversazioni con Loro” di Daniel Meurois-Givaudan –
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