Praticare la meditazione, non significa tentare di vedere colori o forme o cercare di modellare un’esperienza o un’altra. La meditazione, dal punto di vista del Mahamudra, significa sgomberare, liberare la mente da tutte le forme di attaccamento, di appiglio, di volere, di caratterizzazione delle cose. Non si tratta tanto di far qualcosa, quanto di disfare i legami e le catene che imprigionano la mente. Abbandonando l’attaccamento alle cose come se fossero dotate di realtà inerente, si rilascerà la presa mentale nei confronti di queste cose e la volontà che vi è connessa, sicché l’apparenza si troverà ad essere libera da sé.
Spesso si crede che meditare significhi imporre uno stato di vuoto alla mente, uno stato senza pensiero né movimento mentale: quest’idea è sbagliata, perché se la meditazione fosse uno stato senza pensiero, questo tavolo davanti a noi starebbe meditando! La meditazione non ha nulla a che vedere con il fatto di creare un vuoto volontario nella mente: meditare non significa bloccare il movimento dei pensieri, ma restare in uno stato in cui questi pensieri non fanno presa. Se non ci fossero pensieri o movimento concettuale nella mente, chi mediterebbe?
La meditazione consiste dunque semplicemente nel riconoscere ciò che ci lega all’apparenza, alla manifestazione esterna, e rilasciare la stretta delle fissazioni mentali. Significa operare una distensione rispetto all’abituale condizionamento, e lasciare che questa distensione crei il suo effetto: gli oggetti su cui la mente si fissa cadono da sé, i nodi si disfano da soli. Meditare significa disfarsi di quella corazza che ci siamo forgiati, degli abiti superflui che portiamo; allora, abbandoniamo una ad una le vesti concettuali, per rimanere nella nudità primordiale. In questa distensione si prova lo stato fondamentale della mente come luce, come coscienza conoscente, come lucidità viva. Questa chiarezza della mente è definita come coscienza istantanea, immediata, uno stato esente da elaborazioni mentali o reificazione. Semplicemente, dobbiamo restare nel godimento di questo stato, lasciando la mente nella sua dimensione propria, senza caratterizzare o giudicare alcunché, senza neppur concepire la nozione di meditazione.
Quando la mente riesce a mantenersi stabile in questo stato, sperimenta il proprio spazio e tutti i fenomeni esterni ed interni vengono percepiti nella loro dimensione di vacuità. Questo stato non è limitato da nulla, è libero da ogni orientamento, privo di supporto, e in esso è presente la conoscenza fondamentale esente da punto di riferimento. È anche uno stato di felicità e di benessere, libero da ogni impedimento concettuale. L’apparizione di queste qualità della mente è segno del successo della pacificazione mentale (Sciné); lo sviluppo di questa meditazione, quando si è in grado di rimanere assorti in tale stato senza perderlo o alterarlo, è il conseguimento del “samadhi di Sciné”.
È importante non giudicare la propria meditazione, non pensare che il tale stato sia “buono”, e che quell’altro sia “cattivo”, che quando la mente è calma la nostra sia una “buona meditazione”, mentre quando la mente è agitata la nostra sia una “cattiva meditazione”. Quando sorgono idee di questo genere nel corso della meditazione, bisogna dirigere la propria attenzione verso colui che sta giudicando in tal modo, verso la coscienza che sta valutando la meditazione; con l’introspezione questa coscienza scopre di essere priva di forma o di colore; l’osservatore è privo di qualsiasi specificità che potrebbe provare la sua esistenza. Come avevamo fatto per l’oggetto percepito, ritroviamo la dimensione vuota della mente percepente, l’essenza di realtà del soggetto. Dunque, quali che siano i fenomeni mentali che sorgono nella mente, vanno trattati in questo modo: non si tenta di prevenire il loro apparire o di farli cessare una volta che sono presenti; non vanno seguiti, ma contemplati per ciò che sono. Ogni volta che si riconosce l’essenza attraverso lo sguardo diretto, ritroviamo la dimensione della mente non ostruita, libera da ogni ostacolo.
Meditare cercando qualcosa di più all’esterno, porterà ad un senso di mancanza; è esattamente il processo inverso, quello che dobbiamo applicare: liberarci da ciò che ingombra la mente volgendoci all’interno, fino allo stato spontaneo in cui non sussiste né ricerca né sofferenza: la pienezza onnipresente.
La dimensione naturale della nostra mente è il Dharmakaya, il quale è, per sua natura, spontaneo. L’unico modo di incontrare la mente è armonizzarla con questa natura priva di cause, e soltanto uno stato di distensione e di apertura può consentire a quest’essenza spontanea di sorgere da sé.
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