martedì 17 luglio 2012

Meditare è ascoltare


I giusti atteggiamenti costituiscono solo l’inizio del viaggio spirituale, anche se perfezionare se stessi in tali ambiti richiede lo sforzo di una vita e comprende l’intero viaggio spirituale. Se da un lato è necessario il giusto atteggiamento per raggiungere la perfezione della meditazione, al tempo stesso è solo nella meditazione che le nostre attitudini possono essere perfezionate.

Che cos’è dunque la meditazione? Ecco una buona definizione: la meditazione è ascolto. Significa ascoltare non solo con l’orecchio, ma con l’anima, non solo il suono, ma il tacito linguaggio dell’ispirazione. Ognuno degli yama e dei niyama potrebbe essere descritto come una pratica per perfezionare l’arte dell’ascolto.

Considera il primo yama. “Non-violenza” è ascoltare il silenzio interiore, ascoltare in modo così attento da percepire la violenza che eserciti sulla tua pace interiore quando porti danno a qualcuno, sia pure solo nel pensiero.

“Evitare la falsità” significa “ascoltare” qualsiasi cosa accada, in questo caso imparando ad accettare ciò che non può essere evitato e a sentirsi completamente a proprio agio con esso. Significa non giudicare. Significa sforzarsi di sentire, dietro il silenzio interiore, la rassicurazione dell’anima che tutto è bene ed è come dovrebbe essere.

“Non-avarizia” significa vivere nella consapevolezza della libertà dell’anima, la compagna della pace meditativa. Significa “ascoltare” il silenzio che si trova dietro la baraonda dei desideri mondani nella mente.

La “non-accettazione” è ascoltare i divini suoni interiori (che saranno descritti più avanti); significa sapere in modo assoluto che questi suoni rappresentano la nostra sola realtà. Accettare che qualcosa possa appartenerci, siano pure i nostri talenti o i tratti della nostra personalità, può soltanto ostruire la conoscenza più profonda del Sé.

“Brahmacharya”, o controllo degli appetiti naturali, significa “ascoltare” le aspirazioni più vere, quelle dell’anima.

“Purezza” è ascoltare la “musica delle sfere”, che tutto purifica e che si ode nella meditazione profonda, invece delle influenze del mondo che insudiciano la pace.

“Appagamento” è ascoltare in un altro senso: non i canti delle sirene del desiderio, ma le armonie dell’anima simili a cori angelici, di gran lunga più piacevoli di ogni immaginabile soddisfazione mondana.

“Austerità” è ascoltare la voce della saggezza interiore, per quanto severa possa sembrare all’inizio; ascoltare le parole o le ispirazioni interiori che dolcemente, ma con fermezza, ci portano a svincolarci da ogni attività che ci distolga dal Sé. Persino i poteri che derivano dal perfezionare tapasya (austerità) vengono percepiti nella profonda meditazione come pure e semplici tentazioni della mente, dato che il loro scopo è ancora una volta quello di coinvolgerci nell’illusione.

“Studio di sé” (swadhyaya) significa, parlando in termini figurati, “ascoltare” le melodie di una motivazione pura, e imparare a distinguere tra queste e il rauco gracchiare di una motivazione che deriva dall’ego.

“Devozione al Signore Supremo” significa ascoltare in modo assorto il “Verbo” interiore che la Bibbia ci dice era «in principio», era «presso Dio», ed «era Dio». Il “Verbo” non è, come credono molti cristiani, la Bibbia stessa; non è neanche qualche altra sacra Scrittura. È l’AUM, il suono divino dal quale si è manifestato l’universo.

È troppo presto a questo punto per discutere in profondità di esperienze esoteriche come i suoni interiori. È importante però capire, mediante questo semplice accenno all’esistenza di tali esperienze, che la meditazione non è tanto un procedimento per acquietare la mente, quanto un modo per percepire realtà che esistono dietro la mente. Esiste un mondo interiore che può essere percepito soltanto quando si distoglie l’attenzione dal coinvolgimento materiale e la si dirige nuovamente verso la divina sorgente interiore.

Come ho già detto, la parola stessa “ascoltare”, nel modo in cui è usata in questo contesto, sta ad indicare molto di più che ascoltare mediante le orecchie. Significa, tra l’altro, fra tacere ogni aspettativa e lasciare che la mente si lasci completamente assorbire da qualsiasi ispirazione possa giungerle. Significa ricevere, invece di generare pensieri edificanti con la mente. Comprende ognuno di questi aspetti, ma dà a ciascuno di essi una dimensione più profonda.

Esiste infatti, letteralmente, una musica interiore che, se ascoltata, distoglie la mente da tutto ciò che riguarda il mondo e bandisce l’illusione di un’esistenza vissuta fuori dal Sé.

Così l’“ascolto”, se applicato alle attitudini di yama e niyama e alla scienza dello yoga in generale, chiarisce un equivoco molto diffuso; molti infatti immaginano che lo yoga insegni l’impegno personale, ma disdegni la necessità della grazia divina. Paramahansa Yogananda, in “Autobiografia di uno Yogi”, afferma: «Una verità non può essere creata; può soltanto essere percepita».

La grazia divina è sempre impersonale. Non dipende, come la volontà umana, dalle scelte o dalle inclinazioni personali. Non ha favoriti. Come la luce del sole, splende ovunque in modo imparziale. Ciò che impedisce alla luce del sole di arrivare ugualmente dappertutto è la presenza di ostacoli: nuvole, palazzi, tende che coprono le finestre. Ciò che impedisce alla grazia di raggiungerci è la presenza di ostacoli nella nostra coscienza.

Può darsi che non possiamo fare molto per rimuovere gli ostacoli che si oppongono alla grazia: come le nuvole e i palazzi, essi sono messi lì dalla Natura o da altre persone – malattie, per esempio, o forme-pensiero negative – ma possiamo sollevare le tende che coprono le finestre della nostra mente. Questi ostacoli sono le nostre inquietudini mentali e i nostri desideri mondani.

È questa, dunque, l’azione benefica della pratica dello yoga: essa solleva le nostre tende mentali e ci aiuta ad ascoltare con più attenzione il divino richiamo interiore. È – per usare un’altra immagine – come girare il calice del pensiero e sentire, tenendolo rivolto in alto, che il vino della grazia può riempirlo. Se invece il calice è capovolto, la grazia che (a differenza della luce del sole) è supercosciente, non lo riempirà. Perché dovrebbe versarsi inutilmente sul pavimento?


– da “Supercoscienza. Risvegliarsi oltre i confini della mente”
di Swami Kriyananda



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