sabato 19 novembre 2011

La vera essenza del sufismo



Quanti si accostano alle espressioni del sufismo o alle esposizioni che ne sono state fatte, possono trovarsi di fronte a due forme del tutto differenti fra di loro, corrispondenti alle due correnti determinate dai modi di sentire il sufismo stesso.

La prima corrente che potremmo definire “informale”, di natura esoterica e iniziatica con tendenza trascendentale, considera della massima importanza l’evoluzione psichica del Sé a prescindere dai mezzi con i quali la si può ottenere. È pertanto libera da schemi e da limitazioni specifiche, quali l’appartenenza dell’allievo alla religione musulmana, la conoscenza obbligatoria della lingua araba, il rigorismo formale dell’organizzazione in Ordini riconosciuti. Perciò ingloba tutte le vie per l’evoluzione dal Molteplice all’Uno, considerandone le varietà come necessari adattamenti ambientali. Ogni individuo, a prescindere da razza e religione, può avviarsi sul cammino dell’illuminazione liberandosi da qualsiasi limitazione. Pertanto il sufismo stesso non potrà venir confinato nel cerchio di una tradizionalità legittimante, o nell’ambito di una cultura e di un periodo storico. Le citazioni che traggo, ad esempio, da testi di Idries Shah, riguardano questo aspetto del sufismo.

La seconda corrente è ortodossa e storicistica. Per essa la forma esteriore e la programmazione tradizionale sono inalienabili. È sufi solamente colui che viene iniziato in un Ordine regolare; e il sufismo viene considerato il “midollo della religione islamica”. Annovera fra gli adepti anche dei fanatici, e fra questi non pochi persianofili. A volte però serve ad equilibrare il pericolo di una eccessiva libertà in cui può incorrere la corrente precedente (molti europei che hanno studiato il sufismo, hanno considerato solo l’aspetto proposto da questa corrente). Le citazioni che traggo, ad esempio da Seyyd Hossein Nasr si riferiscono a questo secondo modo di vedere.

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Parrebbe così che vi possano essere due sufismi (e ognuno avrebbe a sua volta due aspetti): uno tradizionale, la cui storia è descrivibile rintracciandone le fonti, cui in generale si attengono quanti non hanno in realtà compenetrato il messaggio sufico; e uno di fuori dalla realtà storica e dalla tradizione, ed è forse ciò che l’umanità va cercando da sempre.

[...]

A ben guardare, tutto ciò divide: confraternite legittime e non legittime, d’Oriente e d’Occidente, settarismi e disposizioni classiste ed elitarie. Eppure l’essenza del sufismo mira a far capire che non debbono sussistere suddivisioni o differenze tra spirito in cammino e altri spirito in cammino, dal momento che tutti – presto o tardi – giungeranno ad una medesima meta. Nessuna costrizione a regole, che sempre si rivelano effimere!

E allora? Allora le fazioni sono l’aspetto esteriore. Una specie di frontiera oltre la quale transitano gli adepti validi; alla quale si fermano i “falsi maestri”, gli “allievi non realizzati”, quanti insomma si limitano ai formalismi esteriori e non hanno ancora afferrato la vera essenza del sufismo. È anche questa una prova, uno dei molti modi per vagliare le possibilità del postulante.

Per altro chi è sulla Via è in marcia, ma chi potrà mai dire d’essere arrivato?

Rimane comunque il fatto che l’essenza del sufismo non è un’etichetta, un atteggiamento; bensì uno stato dell’essere, un modo di vivere alla ricerca dell’Evoluzione del sé verso l’infinito essenziale. Entrambe le correnti precitate concordano nel definire il sufismo come “l’unità trascendente delle religioni”, intendendo con il termine di “religione” non un sottobosco di prevaricazioni, politicizzazioni, atti in violento contrasto morale e materiale con i princìpi stessi della fede. Poche persone sono in grado di pensare in termini di “fede”, di accettare che il prossimo creda con espressioni di fede differenti dalle proprie. Non sono poche le sétte religiose che si arrogano il diritto di avere il monopolio esclusivo di Dio. Ogni essere umano che non fa parte della loro sétta, sia egli anche uno spiritualista eminente, non viene accettato, e in altri tempi non veniva nemmeno lasciato vivere.

A questo proposito il sufi racconta una novelletta, che troverete in molti manuali d’Oriente variamente narrata:

Cinque uomini che compivano il pellegrinaggio alla Mecca s’erano incontrati strada facendo, percorreva insieme il cammino. Ad un certo momento trovarono per terra una moneta d’oro, e decisero di comperare qualcosa da mangiare.
«Io penserei a dell’angur», disse il persiano.
«No, prendiamo dell’uzum», replicò il turco.
«Io voglio dell’inab», tranciò l’arabo.
«Macché – soggiunse il greco – noi faremmo bene a comperare dello stafil».
«Niente! O prendiamo dello shvakh o me ne vado», urlò il mongolo.
Ne sorse una disputa, che degenerò presto in una lite. In quel mentre passava di lì un vecchio saggio, e i cinque si appellarono a lui. Gli spiegarono l’origine del contrasto, e quegli disse:
«Venite con me da un fruttivendolo, e io accontenterò tutti voi». Infatti comperò dell’uva, e i pellegrini allegramente lo ringraziarono. Infatti tutti e cinque volevano la stessa cosa, ma la chiamavano con i termini della propria lingua.

Così è necessario che colui che desidera giungere alla piena Realizzazione del Sé capisca anzitutto che i concetti di base sono tutti unici, e che non v’è differenziazione nelle varie razze, culture, religioni. Deve cioè sentirsi libero da etichette, settarismi, schemi, pretesti (consci o inconsci) politici e religiosi con i quali tende a dar libero sfogo alle proprie negatività. Deve essere libero da desideri, paure, ansie, superstizioni, angosce... Libero da limiti e costrizioni. Libero, vivendo però la vita d’ogni giorno, non rifugiandosi asceticamente in un mondo di rinuncia fobica o psicotica.

Così i sufi operano nel mondo, pur essendone ormai del tutto staccati; ed a questo mondo forniscono una carica vitale utile in molti e molti campi, dalla medicina all’arte, dalla ricerca al misticismo.

Allora – mi si dirà – i sufi sono semplicemente quei santi, scienziati, legislatori, artisti o governanti, che godono della stima universale. No!: pochi sufi sono stati applauditi in vita, né l’hanno voluto; alcuni anzi sono stati osteggiati, accusati, condannati alla tortura o alla morte; e in effetti a nessun vero maestro importò mai l’opinione dei contemporanei, nonché ogni altro ciarpame transitorio del mondo. Un maestro sufi, uno dei maggiori anche, può vestire abiti dimessi o ricchi, può essere tanto un eminente scienziato quanto un ignoto artigiano. Non è ciò che si vede quel che conta. Chi è davvero ricco non ha bisogno di dimostrarlo; ma chi è saggio sa anche che è saggio non dimostrarlo. Non sempre d’altronde si opera bene insegnando la Conoscenza a tutti. Nizâm adDîn Awliyâ’ († 1323), una delle figure più importanti della Chishtiyya, disse: «I re possono nascondere i loro tesori in due posti. Il primo, ovvio, è la camera del tesoro, robusta sì, ma che, oggetto delle mire altrui, può venire in molti modi depredata. Il secondo, più sicuro, è sotto una catapecchia in rovina, dove a nessuno verrebbe mai in mente di cercarlo».

Così, se chiederete a un sufi perché – pur vivendo in una società e quindi profittandone – non svela tutti i misteri che è giunto a penetrare; perché non li divulga in modo semplice o non semplifica il proprio modo di insegnare, probabilmente vi sentirete raccontare, a mo’ di risposta, la storielletta di Nasruddin che, sorpreso dai suoi compaesani a gettare del denaro in uno stagno, rispose loro: «Faccio così perché ieri stavo quasi per essere buttato in acqua dal mio asino che stava scivolando, quando le rane, con il loro improvviso gracidio, lo spaventarono, sicché per la paura si rimise in piedi, e io fui salvo. Perciò ricompenso le rane gettando loro del denaro».

Appunto: che se ne fanno le rane del denaro? Per questo il sufi nasconde piuttosto il suo tesoro, e non si lascia scegliere come maestro da chi vuole diventare suo allievo, ma è lui che sceglie l’allievo. E non perché si considera “superiore”, bensì perché è differente da quanti operano secondo condizionamenti appresi.


– da “Il sufismo vertice della piramide esoterica”
di Gabriele Mandel



1 commento:

Anonimo ha detto...

Quello che é descritto qui riguardo il sufismo é frutto di una interpretazione individuale a base estetizzante. Non c'é sufismo senza Islam. Tutte le pratiche, gli esercizi e le meditazioni sufi di tutte le Tariqe sono fatte con il Corano e le sue Sure, e presuppongono la recitazione della Shahada. Specialmente nel passato, in una tariqa era difficile entrare senza soddisfare determinati criteri. Lo Dhikhr a sua volta consiste nella ripetizione dei nomi di Allah e di intere Sure. L'arabo va conosciuto almeno quel tanto che serve a essere consapevoli di cosa si stia dicendo...

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